
Ripartiamo dal lavoro
Il progresso di ogni società, in ogni parte del mondo e in ogni periodo storico, è sempre dipeso dal lavoro, dalla sua qualità e dal valore che ad esso è stato riconosciuto a livello individuale, certamente, ma soprattutto a livello collettivo. Con la Rivoluzione Industriale le grandi fabbriche divennero motore dell’economia e al tempo stesso luogo identitario per milioni di lavoratori. Fu in quel contesto che nacquero le prime forme di solidarietà operaia. Il sindacato fu capace di interpretare le esigenze della classe lavoratrice, sintetizzandone le istanze e contribuendo a costruire una coscienza collettiva capace di aprire un nuovo capitolo della storia. collettivo. Attraverso le lotte sindacali, si conquistarono diritti fondamentali, come il giusto salario, le tutele sanitarie, la limitazione dell'orario di lavoro e la previdenza sociale. In quel contesto il lavoro non era solo un’attività finalizzata a procurarsi i mezzi materiali per vivere, ma rappresentava un legame tra individui, un’opportunità di crescita comune e di appartenenza a una classe sociale consapevole del proprio ruolo nella storia.
Con la fine del novecento la spinta propulsiva del lavoro come fattore di cambiamento sociale si è inceppata. La progressiva frammentazione del tessuto produttivo e l’emergere di nuove forme di lavoro hanno contribuito a scardinare il modello delle origini. Il sindacato, un tempo capace di fare sintesi tra l’interesse individuale e quello collettivo, ha perso centralità, incapace di adattarsi a un mercato del lavoro sempre più polverizzato e volatile. L’avvento della digitalizzazione e dell’automazione ha ulteriormente accelerato questa frammentazione, generando nuove professioni e modalità di impiego che mal si adattano alle tradizionali logiche di rappresentanza. Il risultato è stato un progressivo isolamento dei lavoratori, sempre più soli di fronte alle sfide del cambiamento. La coesione sociale che aveva caratterizzato le generazioni precedenti si è affievolita, e con essa si è dissolta anche l’idea del lavoro come elemento cardine dell’identità individuale nelle relazioni sociali.
In questo vuoto di riferimenti ha trovato terreno fertile una narrazione che ha progressivamente svalutato il lavoro, dipingendolo come una sorta di maledizione da cui liberarsi. La retorica delle “grandi dimissioni”, peraltro smentita dai fatti, ha ulteriormente alimentato questa visione distopica sul senso del lavoro. Particolarmente colpiti da questa narrazione sono stati i giovani, che si affacciano al mercato del lavoro con sempre maggiore sfiducia. In un mondo in cui il lavoro viene raccontato come precario, sfruttato, pericoloso, privo di gratificazione e in declino, molti giovani hanno smesso di vederlo come uno strumento di realizzazione e mobilità sociale, considerandolo, al più, un male necessario.
In questo scenario, l’avanzata dell’intelligenza artificiale e delle piattaforme digitali ha contribuito a ridefinire il concetto stesso di occupazione, sostituendo mansioni tradizionali con processi automatizzati e imponendo nuovi modelli di business basati sulla riduzione del costo del lavoro. Le opportunità offerte dall’intelligenza artificiale sono state oscurate dalla narrazione dominante, che ha privilegiato una visione catastrofista del futuro del lavoro. Se, da un lato, è vero che l’automazione e l’intelligenza artificiale stanno erodendo alcune professioni, dall’altro stanno anche creando nuove opportunità in settori emergenti. Tuttavia, l'incertezza e la paura hanno finito per scoraggiare molti giovani dall’investire nella formazione e nell’acquisizione di competenze, alimentando un senso di inutilità dell’impegno nel lavoro.
Ma non esiste un futuro, né personale né sociale, che possa prescindere dal lavoro. Il rischio di una società che svaluta l’occupazione è quello di un declino non solo economico, ma anche culturale e identitario. Occorre quindi un’inversione di tendenza, un processo di ricostruzione che parta dall’organizzazione delle imprese. Per farlo, è necessario investire su percorsi di formazione professionale che rispondano alle trasformazioni in atto, riducendo il disallineamento tra domanda e offerta di competenze. La transizione digitale e la rivoluzione ambientale impongono una ridefinizione delle figure professionali. Le imprese devono essere il fulcro di questa trasformazione, promuovendo condizioni di lavoro che favoriscano la crescita personale e professionale, incentivando il benessere e la partecipazione attiva dei dipendenti.
Un ruolo chiave spetta alle istituzioni, che devono realizzare efficaci politiche attive per l’occupazione, investire in istruzione e formazione continua e garantire condizioni di lavoro dignitose. Ma anche il sindacato deve ritrovare il proprio ruolo storico, dimostrando capacità di aggregare interessi individuali e di tradurli in una visione comune. La riduzione delle disuguaglianze, il contrasto al lavoro di bassa qualità e la creazione di opportunità di carriera per i giovani devono diventare priorità di ogni agenda politica ed economica. Solo così potremo invertire la tendenza e restituire al lavoro il ruolo che merita: quello di motore dell’economia e di pilastro del rinnovamento sociale.