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L’avvento dell’AI spaventa, come sempre avvenuto per i grandi cambiamenti del passato. Ma in realtà i dati dimostrano che si tratta di un’opportunità, purché vengano predisposti seri e mirati piani di formazione

Parlare seriamente di AI e lavoro è difficile, perché è difficile parlare seriamente di lavoro. Il riferimento a un generico ‘posto’ di lavoro, tipico tanto degli economisti quanto dei giuslavoristi, è di scarsa utilità se vogliamo parlare di come si trasformano i lavori a fronte del cambio della tecnologia. Come gli studiosi di management e organizzazione provano -troppo timidamente- a dire da Taylor in poi, i lavori o sono specifici o non possono essere oggetto né di progettazione né di gestione né di formazione. Questo perché i lavori specifici sono insiemi complessi di competenze specifiche ognuna delle quali reagisce diversamente al cambio tecnologico. 

Ne consegue che la grande parte del dibattito è fintamente ideologico (battaglie solo apparentemente furiose fra tecnofobici neoluddisti contro tecnoentusiasti). E si traduce in stagionali lamentele e cassandriche previsioni tanto generiche nella sostanza quanto specifiche nei numeri (‘spariranno x, y milioni di lavori’). Un’altra, ancora più triste parte del recente dibattito, è poi una tentata vendita che parte dal descriverci le magnifiche e progressive sorti della tecnologia di turno (AI oggi, PC prima, carbone prima ancora) per venderci un ‘pacchetto’ di cui con molta probabilità non necessitiamo.

In ogni caso niente che ci aiuti a governare responsabilmente e in senso positivo la trasformazione vera dei lavori. Che è grande. Identitaria. Sconvolgente. Per le imprese. Gli umani. E la comunità.

Ma bando al nichilismo e proviamo a dirci il vero.

In primis, l’AI è un motore di trasformazione. Come decine di altre volte accaduto nella storia, è un motore di natura tecnologica a sconvolgerci. Come l’osso di Kubrick invano ci ha detto. L’AI è il nuovo carbone, interessantissimo per gli esperti di carbone. Ma per noi, esperti di lavoro, è ‘solo’ un nuovo osso. Un nuovo carbone. Noi, appassionati di progettazione di lavori, dobbiamo comunque fare la fatica di disarticolare il lavoro nelle sue attività e competenze e da lì cominciare la riprogettazione. Le previsioni più o meno allarmistiche sui lavori che ‘spariscono’ non possono che essere inutili. E, infatti, aldilà dei numeri assoluti, se si guarda poi alla lista dei lavori si trovano sempre le solite minzberghiane categorie di lavori amministrativi che non ci saranno più. Sia detto con il massimo rispetto per alcune prestigiose istituzioni che producono la lista di questi lavori che spariscono, ma i primi tre lavori sono gli stessi che si poteva prevedere sparissero quando è arrivato il primo calcolatore. 

Come secondo elemento di riflessione, l’AI è un motore di cambiamento e nulla è più sconvolgente per l’umano di cambiare. In una recente ricerca è fra le prime motivazioni di stress dei lavoratori (insieme alla trasformazione ‘verde’). E anche su questo nulla cambia rispetto al passato. Nel chiaroscuro nascono i mostri. E fare luce è il nostro dovere. Con i dati. E qui ci sono, intanto, dati al livello macro che è importante richiamare: fra il 1960 e il 2017 il numero di lavoratori negli Stati Uniti è quasi triplicato. E una analisi specifica sul PC ha evidenziato che dal 1980 ha portato alla creazione netta di quasi 16 milioni di posti di lavoro. Ma poi soprattutto dobbiamo raccogliere dati nelle imprese. Raccogliere dati veri a partire dai lavori veri e mostrare alle specifiche famiglie professionali quante e quali nuove competenze devono essere apprese. Evidentemente le implicazioni sugli specifici lavori, o meglio sulle specifiche competenze, sono variegate. E alcune competenze diventano obsolete o completamente inutili e altre crescono e si rafforzano. È importante partire dalle liste specifiche.

Terza e ultima e più importante riflessione che ora qui voglio dire. Le imprese e le comunità possono e debbono approntare piani di azione per la trasformazione delle competenze. E il piano di azione possibile è uno solo e si chiama sistema di formazione (o riqualificazione) di massa. Più precisamente, piani settoriali di formazione di massa. Su cui fare scala. E far convergere milioni di persone. Dobbiamo partire dalle catene del valore di impresa e dagli impatti dell’AI sulle diverse specifiche attività. E da quelle attività risalire ai lavori. E quei lavori disarticolarli in competenze specifiche e su quelle formare. Formare al lavoro e sul luogo di lavoro, con piani rigorosi di on the job training strutturato.

Il tema centrale, infatti, della trasformazione tecnologica è sempre il suo impatto sulle competenze specifiche. Sono le competenze necessarie a svolgere i lavori che cambiano. Sono le competenze a ‘sparire’, nel senso di non essere più necessarie perché sostituite dalla nuova tecnologia di turno. E sono le nuove competenze a dover essere oggetto dei piani di massa di formazione. Per queste nuove competenze non dobbiamo attivare sciagurati calderoni di soldi a pioggia. Ma dobbiamo attivare piani implementativi di dettaglio, piani misti pubblici e privati per la riqualificazione dei disoccupati e degli occupati. E sempre con un lavoro coordinato fra sistema pubblico e imprese, dobbiamo adeguare i piani di istruzione dei più giovani a partire dagli ITS.

Questo scritto può apparire molto prosaico in un dibattito che oggi è abituato a scaldarsi per parole più avventurose. Ma oggi non è il tempo dell’avventura. E il tempo per essere responsabili. E seri.

 

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