La transizione green per cambiare tutto
I record esistono per essere battuti, ma quando si parla del clima i primati rischiano di durare davvero poco: è “molto probabile” che il 2024 sia l’anno più caldo di sempre, aggiornando il record stabilito solo un anno fa dopo decenni di monitoraggio. A fare i rilievi è il Copernicus climate change service, l’ente che per l’Europa tiene sotto controllo i cambiamenti climatici. Secondo gli scienziati, da gennaio a luglio le temperature globali sono state di 0,70 gradi centigradi superiori alla media del periodo 1991-2020 e 0,27 gradi in più registrati negli stessi mesi del 2023. Una anomalia per la quale è “sempre più probabile che il 2024 sia l'anno più caldo mai registrato”, a meno che non ci sia un improvviso e inaspettato crollo delle temperature nell’ultima parte dell’anno.
“È un trend che osserviamo da tempo”, sottolinea senza sorpresa Valentina Bosetti, professoressa di Environmental and Climate Change Economics dell’Università Bocconi. “Quest’anno - spiega - abbiamo risentito dell’effetto di El Niño, un fenomeno metereologico che, ogni due-sette anni influenza il clima nel continente Americano in primis e per un effetto domino anche quello Europeo, portando ad una maggiore occorrenza di fenomeni estremi nelle precipitazioni e influenzando le temperature. Ma i dati di Copernicus confermano che l’anno intercorso tra settembre 2023 e agosto 2024 è il più caldo registrato per il pianeta”. Per fermare il trend, “servono politiche e investimenti lungimiranti che sfruttino il più possibile le sinergie tra mitigazione e adattamento”, evidenzia Bosetti che sottolinea la necessità di accelerare sulla decarbonizzazione dell’energia ed essere resilienti verso quei cambiamenti nel clima che saremo comunque destinati a vedere.
“Gli investimenti in infrastrutture capaci di ridurre la domanda di energia o portare ad una generazione pulita dell’energia, ma che allo stesso tempo tengano conto della necessità di proteggerci dagli effetti negativi del cambiamento climatico, sono quelli che portano maggiori benefici. Le risorse economiche - assicura - non sono il collo di bottiglia; molte delle tecnologie pulite sono economicamente convenienti e il settore privato si sta mobilitando”.
Ciò che è indispensabile, dice la professoressa, “è rendere il processo dei permessi più efficiente e un sistema di politiche chiare, giuste e di lungo respiro”. Guardando fuori dall’Europa, nei prossimi anni il commercio avrà un impatto sempre maggiore sulle politiche ambientali perché “quello che fanno gli altri paesi per l’ambiente, le scelte di politica climatica nazionale, saranno sempre più condizionate dalla presenza di dazi ambientali. Un chiaro esempio è il Carbon Border Adjustment Mechanism, la politica dell’Unione Europea finalizzata a livellare i costi di produzione imponendo dazi ai Paesi che hanno politiche climatiche a maglie larghe”.
Anche per anticipare le scelte dei paesi-competitor, “in Europa bisogna sempre tenere in mente la mitigazione e guardare alla transizione come ad una possibilità di cambiamento che va oltre al problema del cambiamento climatico”, osserva Bosetti. “Dal lato della produzione, ridurre le materie prime utilizzate, e ripensare la supply chain per minimizzare i fattori inquinanti lungo tutta la filiera. Dal lato della domanda, aiutare le persone a ridurre il più possibile la propria domanda di materie prime ed energia”. Quella della transizione green, mette in luce la docente, “è un'occasione per realizzare che il nostro sistema economico è integrato e dipendente dal sistema naturale e che deve avere come obiettivo il benessere collettivo non solo della generazione presente, ma anche di quelle future”.
Chi deve costruire le politiche pubbliche deve riuscire a fare scelte dirompenti senza creare un esercito di vinti. “Serve provare a scrivere delle misure che non generino dei costi troppo concentrati su determinate categorie di persone, cercando anzi di distribuirli in maniera più possibile estesa e progressiva su tutta la società”, spiega Italo Colantone, professore associato del dipartimento di Social and Political Sciences dell’università Bocconi. Non un compito facile per chi vuole raggiungere in fretta degli ambiziosi target di riduzione delle emissioni. “L’Area B di Milano offre degli spunti interessanti per comprendere come le politiche verdi possano generare una forte opposizione sociale e politica”, spiega il docente prendendo come esempio la decisione del comune di creare una grande zona a traffico limitato all’interno della città per impedire la circolazione alle automobili più inquinanti, quindi con più anni sulle spalle. “Attraverso un sondaggio condotto tra i cittadini di Milano, abbiamo constatato che tra coloro i quali avevano dovuto cambiare l'automobile, a causa delle restrizioni, cresceva il consenso per la Lega, il partito che aveva osteggiato con maggior forza la misura. Quello dell’Area B è un classico esempio di politica ambientale regressiva, che colpisce maggiormente chi ha meno: chi ha un’automobile più vecchia e inquinante spesso non è nelle condizioni economiche di acquistarne una più nuova. La carbon tax è un altro esempio di misura regressiva: aumenta il costo del carburante per tutti nella stessa maniera, ma tende ad avere un impatto relativamente maggiore su chi ha minori disponibilità economiche”.
Che fare, allora? Primo, suggerisce Colantone, “è opportuno prevedere delle misure di compensazione efficaci e facilmente accessibili, quando ad esempio si impone il cambio della propria automobile. Poi bisogna rinnovare l'approccio comunicativo per fare in modo che le misure a favore del clima siano meglio comprese e accettate. È una scelta davvero a costo zero che sarebbe molto facile mettere in pratica. Accanto alla sostenibilità ambientale, occorre valutare la sostenibilità politica delle azioni che vengono messe in atto. Quando le misure ambientali generano gruppi significativi di perdenti, alle elezioni successive potranno essere premiati partiti che si oppongono alle misure green, che quindi non saranno sostenibili nel tempo”.
La transizione ambientale, suggerisce Colantone, dovrebbe essere “il più possibile equa e sostenibile”. Da un nuovo paper al quale sta lavorando lo stesso docente emerge un aspetto interessante: “Chi ha un interesse professionale allo sviluppo dell’economia verde è più portato a sostenere politiche green. Non solo tra ingegneri o tecnici di alto livello, ma anche tra i profili meno qualificati”. Per di più, anche i lavoratori potenzialmente più svantaggiati dalle politiche ambientaliste, evidenzia Colantone, “tendono a opporsi meno nei contesti in cui gli effetti positivi della transizione verde sono più visibili, come ad esempio nelle regioni che hanno una spiccata predisposizione per la produzione di energia verde, perché la transizione ambientale genera benefici diffusi". Da qui l’insegnamento più grande - dal punto di vista della comunicazione - per chi ha il compito far accettare anche le scelte più difficili: “È importante porre l'accento sulle opportunità alla portata di tutti che derivano dalla transizione verde, sottolineandone il più possibile gli aspetti inclusivi”.