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La mobilità sociale comincia a scuola. E poi passa dall’università

, di Andrea Celauro
L’istruzione è fondamentale per promuovere una società basata sul merito indipendentemente dalle condizione socio-economiche di partenza. Ma bisogna rimuovere gli ostacoli economici e i pregiudizi che rallentano questo processo come dimostrano gli studi dei ricercatori Bocconi e l’impegno dell’università a sostenere economicamente le proprie studentesse e studenti

La differenza si gioca tutta tra il concetto di ascription e quello di achievement. Ovvero tra una società in cui conta la classe sociale di nascita (ascription) e una in cui questa non conta e ognuno può raggiungere gli obiettivi che desidera (achievement). “Nel passaggio dall’uno all’altro risiede il concetto di mobilità sociale”, spiega il demografo e rettore della Bocconi Francesco Billari. “Lo sviluppo della formazione come potente motore di mobilità sociale, prima attraverso la scuola e poi oggi attraverso gli studi universitari (si veda l’ultimo statement dell’U7+), mostra questo trend. Dovere di un sistema democratico è dare a tutti le stesse opportunità sapendo che le condizioni di partenza non sono le stesse, rimuovendo quindi gli ostacoli”. Ostacoli che a volte sono di tipo economico (e che Bocconi contribuisce a superare attraverso il sistema di agevolazioni Bocconi4Access to Education), mentre a volte prendono la forma di stereotipi e pregiudizi legati al genere o al background di origine. Tutti, però, producono un impatto sull’esperienza formativa delle studentesse e degli studenti. Come mostrano gli studi dei ricercatori Bocconi, il passaggio tra la scuola media e la scuola superiore (in particolare) e quello tra le superiori e l’università rappresentano i due momenti cruciali in cui questi ostacoli si annidano e rischiano di frenare quella mobilità sociale che la formazione vorrebbe promuovere.

Il primo passaggio chiave è quello che vede ragazze e ragazzi alle prese con la scelta delle superiori, una scelta che avrà conseguenze fondamentali sul loro futuro. Pamela Giustinelli, assistant professor del Dipartimento di economia e affiliate del LEAP Bocconi che nella sua attività di ricerca si è concentrata proprio su questa delicata fase, è molto chiara: “La scelta del tipo di scuola superiore ha un impatto sulle opzioni di scelta, sulle scelte effettive e sugli esiti futuri sia di studio sia di lavoro”, spiega. “È davvero un momento chiave, forse ancor più del momento della scelta universitaria”. Di fatto, è il momento in cui ragazze e ragazzi decidono il proprio futuro, perché a seconda che scelgano un liceo, un istituto tecnico o un istituto professionale stanno già implicitamente decidendo se frequentare l’università oppure andare a lavorare.

Il ruolo della famiglia nelle scelte scolastiche 

A rendere particolarmente complicata questa scelta – e più importanti i suoi esiti – è il fatto che le ragazze e i ragazzi italiani la affrontano appena tredicenni, quindi “si conoscono ancora poco e hanno poca comprensione delle connessioni tra la scelta e i suoi esiti futuri”, spiega Giustinelli.

La scelta della scuola superiore in Italia è soprattutto una scelta effettuata dalla famiglia, “la prospettiva adottata da quest’ultima è spesso di breve periodo. L’enfasi è legata al valutare se la nuova scuola possa piacere alla ragazza o al ragazzo e se possano riuscire bene, mentre la valutazione degli aspetti successivi è carente.”

In realtà, nella scelta le famiglie avrebbero anche l’aiuto del consiglio orientativo che le scuole sono tenute per legge a produrre durante l’ultimo anno delle medie: “Tuttavia, il consiglio orientativo stesso tende a focalizzarsi su aspetti di breve periodo, legati alla riuscita attesa dello studente alle superiori. E comunque in Italia tale consiglio orientativo non è vincolante per le famiglie, che sono quindi libere di disattenderlo”. 

Famiglie avvantaggiate vs famiglie svantaggiate

Inoltre, continua Giustinelli, “succede che le famiglie più avvantaggiate dal punto di vista culturale e socio-economico, che sono tendenzialmente più coinvolte nel percorso scolastico dei figli e quindi nella scelta, tendano ex ante a interagire di più con gli insegnati durante l’anno e quindi, in un certo senso, a ‘negoziare’ il consiglio orientativo. Consiglio che, però, se alla fine non corrisponde alle aspettative, viene disatteso”. Di contro, “le famiglie più svantaggiate, per esempio quelle con un background migratorio – che sono mediamente meno coinvolte nel percorso scolastico – tendono a seguire di più il consiglio orientativo”.

Ciò che sappiamo dalla ricerca esistente è che in Italia, “per quanto il consiglio orientativo si basi prevalentemente sull’andamento scolastico dello studente alle medie, c’è evidenza quantitativa che, a parità di risultati scolastici alle medie (e persino di risultati nei test standardizzati di tipo Invalsi), studenti con caratteristiche diverse vengano indirizzati in modo diverso. I figli delli immigrati e le ragazze ricevono consigli al ribasso: più istituti tecnici e professionali per i primi, meno materie STEM per le seconde”. 

I bias nei confronti delle ragazze …

“Tra le ragazze e i ragazzi con performance migliori alle scuole medie misurate da Invalsi”, interviene Michela Carlana, assistant professor alla Harvard Kennedy School e affiliate del Leap Bocconi, “il 17% in meno delle ragazze sceglie scuole superiori di tipo scientifico, scelte che si ripercuotono poi sulla loro carriera successiva”.

Uno studio sugli stereotipi di genere condotto da Carlana su 1.400 insegnanti ha fatto emergere la presenza di questo tipo di bias negli insegnanti italiani, che li porterebbe a consigliare meno i percorsi scientifici alle ragazze. “E lo studio prova proprio il nesso causale tra l’esposizione a stereotipi di genere, la performance scolastica e le scelte successive delle ragazze. Peraltro, a questo effetto negativo nei confronti delle ragazze non corrisponde un effetto positivo per i ragazzi esposti a insegnati con questi bias”. Ossia, non c’è un aumento dei ragazzi che si iscrivono agli istituti scientifici, ma sono solo le ragazze ad essere penalizzate. 

Per ridurre i gap di genere nella scelta delle materie scientifiche una soluzione efficace è l’esposizione a tecnologia e coding sin dai primi anni dell’adolescenza: “Da anni lavoro con la Fondazione Officina Futuro, che ha implementato dei club di coding per le ragazze, in particolare per le scuole medie”, spiega la studiosa. Negli anni hanno già partecipato 13 mila ragazze e Carlana, che dal prossimo anno accademico lascerà Harvard per tornare in Bocconi dove si è laureata, ha valutato l’impatto della partecipazione ai corsi sulla scelta della scuola superiore: “La probabilità di frequentare un liceo scientifico aumenta del doppio”, spiega. Soprattutto, “diminuisce la probabilità di pensare che il loro genere sia un ostacolo per raggiungere il loro obiettivo di istruzione e occupazione futura. Che sia un limite per una carriera scientifica”. Peraltro, questo non è l’unico esempio di come l’esposizione precoce a stimoli importanti per svincolarsi dagli stereotipi di genere abbia un impatto notevole sulle ragazze, come dimostra questo studio di Viola Salvestrini, postdoc presso l'AXA Research lab on Gender Equality della Bocconi.

… e quelli verso i figli degli immigrati

Così come nei confronti delle ragazze, anche verso chi proviene da un background migratorio Carlana e colleghi (Paolo Pinotti e Eliana La Ferrara) hanno registrato la presenza di stereotipi. “Abbiamo usato test di associazione implicita, mostrando come gli insegnati che hanno stereotipi, a parità di risultati dei test Invalsi, danno voti più bassi agli immigrati e li raccomandano meno per i percorsi di studi classici o scientifici e più verso i percorsi professionali, rispetto agli altri studenti”. Ma i ricercatori del Leap si sono spinti oltre e, alla luce dei risultati, hanno cercato di incrementare la consapevolezza degli insegnanti sulla presenza di stereotipi e su come questi possano avere un impatto negativo su studentesse e studenti, “che sono in una fase delicata della loro vita e si fidano molto delle raccomandazioni dei loro insegnanti sul tipo di percorso scolastico da intraprendere”. Dividendo il campione, “abbiamo visto che il fatto di mandare prima del voto di fine quadrimestre una mail con i risultati del test sulla presenza di stereotipi ha fatto diminuire del 50% il gap tra il voto che i docenti hanno effettivamente dato e quello che avrebbero dato” (misurato attraverso il gruppo di controllo che ha ricevuto la mail dopo aver prodotto il consiglio orientativo). “Si tratta di un intervento semplice, ma che già contribuisce a migliorare la consapevolezza e ridurre l’impatto degli stereotipi nelle carriere scolastiche degli studenti”.

La necessità di una prospettiva di lungo periodo 

Dal punto di vista delle possibili policy per migliorare questa fase critica della scelta scolastica, secondo Giustinelli è poi fondamentale un cambio di prospettiva. “In questo senso, c’è movimento a livello ministeriale per migliorare il consiglio orientativo, con la consapevolezza della necessità di adottare un’ottica di più lungo periodo e di collaborazione tra la scuola, le famiglie, le università e gli enti locali,particolarmente quelli legati al mercato del lavoro, così da mettere le famiglie il più possibile nelle condizioni di fare una scelta consapevole”. Non solo, “potrebbe essere il caso di ritardare la scelta oppure ripensare il sistema delle ‘passerelle’, dando agli studenti la facoltà di cambiare indirizzo per i primi due anni”, conclude Giustinelli.

In viaggio verso l’università

Altro passaggio chiave è poi quello dell’università. E riguardo al tema della mobilità sociale, “ciò che ci si domanda spesso è quanto valga l’aver frequentato una università di qualità, selettiva per merito”, spiega Massimo Anelli, professore associato del Dipartimento di Scienze sociali e politiche della Bocconi. “Se è vero che i laureati che provengono da un’università di eccellenza guadagnano mediamente di più e ottengono posizioni migliori sul mercato del lavoro, la domanda è: quanto di questo maggiore successo dipende dalla qualità dell’università e quanto invece dalla selezione stessa degli studenti?”. In altre parole: “Quelle stesse studentesse e quegli studenti avrebbero fatto bene comunque e avrebbero ottenuto gli stessi risultati nel lavoro, laureandosi altrove?”. A questa domanda ha risposto lo stesso Anelli in un ‘quasi esperimento’ che ha considerato i risultati da 1 a 5 anni dopo la laurea di due gruppi di studenti: i primi che al test d’ingresso di un’università considerata di qualità del nord Italia hanno ottenuto un risultato di poco al di sopra del minimo per entrare, i secondi invece di poco al di sotto. Risultati simili quindi, ma gli uni sono entrati, gli altri no.  “Il risultato? Facendo 100 la differenza di salario successivo tra laureati nell’università di qualità e gli altri laureati, 50 deriva dal valore aggiunto che ha dato l’aver frequentato quella università”.

Questione di aspirazioni

Tuttavia, sottolinea Anelli, “Un’università di qualità può rappresentare un ascensore sociale solo se si arriva a immaginare di poterla frequentare. C’è dunque anche un problema di aspirazioni: nelle scuole primarie di diverse città italiane si assiste a una sostanziale segregazione territoriale, di quartiere, degli studenti figli di immigrati, che poi si riflette in maniera evidente sulle percentuali di presenza nei diversi tipi di scuole secondarie”, rimarca Anelli. “E la segregazione peggiora con i livelli di istruzione superiori, per cui, facendo l’esempio di Milano, più della metà degli istituti superiori hanno meno del 10% di studenti immigrati, mentre alcuni hanno più del 60%. I migliori licei scientifici e classici hanno tra l'1% e il 6% di studenti immigrati. Questi sono anche gli istituti superiori in cui più del 90% degli studenti si iscrivono all'università, mentre all’università si iscrive meno del 16% degli studenti degli istituti professionali”.

La lezione che arriva dall’Ivy League 

Se guardiamo oltre oceano, per esempio, studi sulle università americane della Ivy League (e altre dello stesso livello) hanno mostrato che circa il 15% dei loro studenti proviene dall’1% più ricco della popolazione, mentre il 13% degli studenti proviene dal 50% più basso della popolazione (neanche, quindi, dalla percentuale meno abbiente). “È importante dire che comunque queste università svolgono il loro compito di formazione in maniera democratica, per cui poi, una volta usciti, anche gli studenti provenienti da famiglie meno abbienti hanno ottimi risultati. È quindi tutto un tema di selezione degli studenti all’ingresso, selezione che evidentemente non è altrettanto democratica”, sottolinea Anelli. “A parità di curricula di altissimo livello, infatti, vengono valutate attività di altro genere, extracurriculari, che spesso può permettersi solo chi ha maggiore disponibilità economica. In questo, sistemi di accesso come quello della Bocconi, che si basa esclusivamente sui risultati del test di selezione e sul curriculum scolastico, è più democratico”. 

Il ruolo dell’università nella mobilità sociale

“Un sistema inclusivo”, conclude il rettore Billari, “deve prevedere la scuola per tutti e un sistema universitario accessibile a tutti. L’istruzione in quanto ascensore sociale può funzionare in molti modi. Può servire a portare tutti ad un certo livello, ma può significare anche che certe università possono consentire di raggiungere un piano più alto”. Il che non significa necessariamente guadagnare di più, ma magari avere un impatto sociale ampio. “Istituzioni universitarie come la Bocconi devono rivestire questo ruolo: portare le proprie studentesse e i propri studenti a un livello più alto, cambiare in positivo le loro vite per cambiare, attraverso di loro, il mondo”. 

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