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Politica industriale e vincoli di bilancio: l’agenda finanziaria per l’UE dopo le elezioni

, di Alessandro Rivera, translated by Jenna Walker
Fino alla pandemia, in tutta l’UE l’obiettivo era contenere la spesa pubblica e ridurre i debiti. Oggi la priorità è la politica industriale, ma il problema del debito e dei conti pubblici non è scomparso

Il tema di politica economica che sembra avere la massima priorità a livello europeo è il ritorno della politica industriale, declinato in narrazioni e obiettivi tra loro sovrapposti, di competitività, transizione verde e digitale, e autonomia strategica che si estende ormai anche alla sicurezza e all’industria della difesa, in conseguenza delle tensioni geopolitiche in aumento.

Il consiglio Ecofin, che riunisce i ministri delle Finanze, più che dei contenuti della politica industriale, discuterà dei suoi riflessi macroeconomici, e del suo finanziamento e della sua governance.

I rischi della politica industriale

Il Fondo Monetario Internazionale ha pubblicato una ricognizione delle politiche industriali adottate nel mondo nel 2023, che indica i rischi che meritano attenzione.

La frammentazione economica globale di commercio e produzione crea inefficienze e incide negativamente sul potenziale di crescita complessivo.

Un altro rischio è una cattiva allocazione delle risorse, specie se i fondi pubblici non sono impiegati per rimediare ai fallimenti di mercato, facili da individuare per la transizione verde, ad esempio, ma meno per quella digitale, salvo che per la digitalizzazione della pubblica amministrazione.

Politiche industriali adottate come ritorsione alle scelte di altri Paesi possono innescare un’escalation di misure costose, che finiscono per annullarsi a vicenda in termini di competitività relativa.

I vari gruppi di interesse possono esercitare pressioni per influire sull’allocazione dei fondi, distogliendoli da effettive finalità di rilancio economico e industriale, per privilegiare scopi di consenso politico, spesso a beneficio di aziende già consolidate.

A queste tematiche rilevanti a livello globale, si aggiungono le implicazioni specifiche del ritorno della politica industriale per l’Unione europea e l’Eurozona.

Non è affatto detto che la riduzione delle interdipendenze economiche diminuisca le tensioni geopolitiche. 

Si potrebbe al contrario sostenere che le interdipendenze, raramente unidirezionali, aumentino gli interessi condivisi e rendano più proficuo il dialogo e la ricerca di un accordo, rispetto a uno scontro aperto.

Se comunque la direzione della politica economica diventasse quella della riduzione delle interdipendenze, si dovrebbe anche analizzare quanto il modello economico europeo sia funzionale rispetto a quell’obiettivo. 

Si pensi alla bilancia commerciale dell’Eurozona, in costante surplus, aumentato dopo la crisi del debito sovrano del 2010-2012, e che ha registrato il primo significativo deficit nel 2022, a causa della guerra in Ucraina e dell’aumento del prezzo dell’energia. 

Nel 2023 l’Eurozona è già tornata al tradizionale surplus, in crescita marcata nel 2024. 

Il surplus sistematico implica una dipendenza dalla domanda estera, che può diventare una vulnerabilità in una fase di tensioni geopolitiche crescenti. Tuttavia, il surplus complessivo dell’Eurozona, seppure rilevante (circa 2,5-3% del Pil negli anni 2015-19, prima della pandemia, e della crisi dell’energia), non dà la misura dell’entità del rischio, che è maggiore di quanto appaia, per via della situazione molto differenziata dei Paesi e delle carenze istituzionali che non permettono una gestione tempestiva ed efficace di shock asimmetrici che possono poi contagiare l’intera area.

La visione d’insieme a livello di Unione o di Eurozona non rende l’idea delle complessità da affrontare per la gestione di una stagione di politica economica incentrata sulla spesa pubblica per governare il cambiamento industriale e produttivo.

La politica economica dell’Unione negli anni 2000 e fino alla crisi pandemica è stata imperniata sul contenimento della spesa pubblica accompagnato dalla pressione per adottare riforme strutturali, per aumentare la competitività. La discontinuità con il nuovo atteggiamento è marcata.

Come dimostra la faticosa gestione del piano Next Generation EU (NGEU), i Paesi non sempre hanno le risorse istituzionali e professionali per elaborare e poi realizzare questo genere di programmi di spesa, e anche le istituzioni europee faticano a supplire a carenze in attività che sono nuove anche per loro.

Ma soprattutto è debole l’infrastruttura istituzionale, fatta di regole, processi e responsabilità. 

I dilemmi dell’Ecofin

L’angolo visuale che spetta all’Ecofin è quello del finanziamento delle politiche di spesa e della connessa governance.

È di per sé dubbio che avviare una stagione di attivismo fiscale, con marcato aumento della spesa pubblica per politiche industriali, sia una scelta raccomandabile, in generale e per l’Europa. 

Gestirla poi con gli stessi strumenti di cui oggi l’Europa dispone può produrre effetti collaterali pericolosi per la stessa tenuta dell’Unione

Un primo tema che emerge è quello della mancanza di capacità fiscale comune. Con le sole disponibilità fiscali decentrate è difficile immaginare un programma di politica industriale coerente e funzionale per l’intera Unione.

Ogni Paese reclamerebbe una forte autonomia nell’individuare le priorità in cui impiegare le risorse del proprio bilancio, a scapito del coordinamento a livello europeo.

Inoltre, sono ben note le forti asimmetrie tra i Paesi dell’Unione dal punto di vista della competitività (esigenze) e dello spazio fiscale (mezzi). E questo comporterebbe, in aggiunta a incoerenza e disfunzionalità, forti rischi per il funzionamento del mercato interno e per la stabilità dell’Eurozona, e quindi della stessa Unione.

Che fare di Next Generation EU

La capacità fiscale comune creata nel contesto della pandemia per gestire i rischi connessi alle asimmetrie tra Paesi ha una scadenza al 2026. 

Si pongono quindi per l’Ecofin due nodi politici: se la scadenza del 2026 possa essere posticipata, e se sia configurabile un nuovo programma di spesa e ridistribuzione comune che possa fare seguito al NGEU.

Il secondo ha implicazioni ben più ampie del primo. Con il NGEU è stata creata un’infrastruttura istituzionale certamente perfettibile, ma anche necessaria per le prospettive di medio e lungo termine dell’Unione. 

Dopo anni di inconcludente dibattito di politica economica, con venature di ingegneria finanziaria (qualcuno ricorda i “blue/red bond”?), l’Unione europea è stabilmente presente sul mercato dei capitali con un proprio safe asset o Eurobond, se così lo si vuole chiamare. 

E questa è solo una componente del NGEU che dà un’idea dell’entità dell’investimento istituzionale che è stato fatto, e, di conseguenza, dello sperpero di capitale politico, credibilità e risorse che si realizzerebbe se l’infrastruttura costituita con il NGEU fosse smantellata.

La discussione su questo punto ha il massimo grado di difficoltà politica, come sempre quando si tratta di mutualizzazione di rischi e oneri. 

In alcuni Paesi cosiddetti frugali, già al tempo dell’approvazione del NGEU sono stati precostituiti vincoli politici e legali per impedire che l’esperimento sia ripetuto in futuro.

La Corte costituzionale tedesca ha indicato limiti stringenti, anche di natura quantitativa, per programmi finanziati a debito del genere del NGEU. Inoltre, le opinioni pubbliche nei diversi Paesi Ue hanno orientamenti distanti e anche contrapposti.

La Banca europea degli investimenti (BEI) è uno degli strumenti di cui dispone l’Unione per condividere risorse e redistribuirle per perseguire scopi comuni. 

La nuova presidente, Nadia Calviño, ha proposto di aumentare il cosiddetto “gearing ratio”, il rapporto tra la dotazione patrimoniale della BEI e la dimensione del bilancio, o, in altre parole, la capacità della BEI di prendere risorse a prestito per fare finanziamenti.

Anche questa proposta, rilevante ma meno impegnativa del rinnovo del NGEU, è oggi ben lontana dal raccogliere il necessario consenso politico. 

Il debito non basta 

La capacità di spesa comune ha come ineludibile complemento il reperimento delle risorse. Sarebbe un errore grave ipotizzare che il debito comune risolva il problema delle risorse, senza chiarire come il debito debba essere ripagato e quali responsabilità esso comporti per contribuenti Paesi e istituzioni. 

Ad esempio ipotizzando che il debito comune possa semplicemente aggiungersi a quello domestico, anche per i Paesi con la situazione fiscale più fragile.

Prima ancora che un errore, sarebbe un modo per bloccare ogni discussione politica. 

La capacità di spesa comune, con la necessaria flessibilità data dal ricorso al debito, deve essere sostenuta dalle risorse del bilancio dell’Unione. Che a sua volta è alimentato da trasferimenti da parte dei Paesi membri, che si dividono tra contributori netti e beneficiari netti. 

Anche un eventuale aumento delle cosiddette risorse proprie, cioè tributi incassati direttamente dall’Unione, chiamerebbe comunque in causa le disponibilità nazionali, visto che questi tributi inciderebbero sulla pressione fiscale e, in funzione della loro entità, dovrebbero portare a una rimodulazione delle entrate tributarie dei Paesi.

Il tema del riequilibrio dei conti pubblici resterà quindi centrale anche dopo le elezioni europee. 

ALESSANDRO RIVERA

Bocconi University

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