
Sanzioni e conflitti: una lezione da maneggiare con cura
Insegno relazioni internazionali da oltre dieci anni, eppure - paradossalmente - il mio lavoro è recentemente diventato più semplice. L’invasione dell’Ucraina e i due mandati presidenziali di Donald Trump hanno profondamente modificato lo sguardo dei giovani sul mondo. In passato, agli studenti cresciuti in un’epoca insolitamente pacifica, le teorie della politica globale sembravano anacronistiche. I nati in Europa alla fine degli anni ’90 erano spesso troppo ottimisti, al punto da rifiutare l’idea che uno Stato debba preoccuparsi della propria sopravvivenza o mantenere un esercito solido.
Oggi, dopo il ritorno della guerra in Europa su una scala che non si vedeva dal 1945, molti di loro accettano una visione più disincantata della realtà internazionale. Al tempo stesso, anche gli studenti dei Paesi in via di sviluppo stanno rivedendo la loro prospettiva: un tempo eccessivamente cinici, tendevano a leggere la politica estera esclusivamente in termini di interesse nazionale, trascurando il fatto che, in periodi di stabilità e crescita, gli Stati occidentali hanno spesso dimostrato una reale generosità verso i più vulnerabili. Con i tagli diffusi agli aiuti esteri, quella generosità rischia oggi di emergere più per la sua assenza che per la sua presenza.
Questi cambiamenti di percezione tra i giovani riflettono un fenomeno più ampio: il ritorno della storia.
Se davvero la storia sta tornando, quali insegnamenti può offrire ai decisori politici di oggi? Vorrei richiamarne due, legati all’uso delle sanzioni economiche. Oggi, le sanzioni - strumenti pensati per indebolire o condizionare uno Stato - non sono più appannaggio delle sole superpotenze come Stati Uniti e Cina. Anche potenze regionali come Arabia Saudita e India le usano sempre più frequentemente. E se le misure adottate contro la Russia nel 2022 hanno attirato l’attenzione mediatica, ogni anno decine di Paesi vengono colpiti da qualche forma di sanzione. Il loro fascino si spiega con due fattori: l’interdipendenza economica crescente e l’altissimo costo della guerra.
Ma la storia del Novecento ci avverte: se mal calibrate, le sanzioni possono non solo fallire, ma addirittura aumentare il rischio di conflitti armati.
Il primo insegnamento è che introdurre sanzioni in contesti nuovi può comprometterne l’efficacia futura. Quando la Società delle Nazioni, nel 1935, impose le prime sanzioni su larga scala contro l’Italia per l’invasione dell’Etiopia, i regimi fascisti in Germania e Giappone interpretarono la mossa come un campanello d’allarme. Intuirono che la comunità internazionale avrebbe potuto tentare di bloccare le loro ambizioni territoriali colpendo l’economia. E si prepararono: accelerarono i piani di autosufficienza per ridurre la vulnerabilità esterna. Così, non solo le sanzioni non riuscirono a fermare l’aggressione italiana, ma contribuirono a rafforzare la determinazione di altri regimi autoritari.
Uno scenario simile si è riproposto dopo il 2022, quando la coalizione occidentale ha imposto alla Russia misure economiche senza precedenti, tra cui l’espulsione dal sistema finanziario globale. Paesi come Cina e India hanno tratto la loro lezione: l’integrazione finanziaria con l’Occidente comporta rischi strategici. E stanno già adottando contromisure per ridurre la propria esposizione. Il risultato è paradossale: pur giustificate, le sanzioni contro Mosca hanno finito per restringere le opzioni strategiche dell’Occidente nei confronti di futuri avversari, che ora saranno più preparati. In altre parole, l’alternativa economica alla forza militare si sta indebolendo.
La seconda lezione storica riguarda l’intensità delle sanzioni e il rischio di provocare reazioni militari. Molti studiosi concordano sul fatto che l’attacco giapponese a Pearl Harbor nel 1941 fu una risposta all’embargo petrolifero imposto dagli Stati Uniti e dai suoi alleati. L’embargo minacciava l’espansione giapponese in Asia orientale - ritenuta vitale per la sopravvivenza dell’Impero. Di fronte alla prospettiva di una paralisi strategica, il Giappone scelse un’azione disperata: la guerra.
Questo ci ricorda che le sanzioni dovrebbero indurre un cambiamento senza mettere in discussione, in modo esistenziale, la sopravvivenza del regime bersaglio. In caso contrario, possono scatenare proprio il conflitto che si intendeva evitare. Pensiamo all’attuale tensione tra Stati Uniti e Cina: un embargo commerciale totale potrebbe essere percepito da Pechino come una minaccia intollerabile, tale da giustificare un’escalation militare - magari su Taiwan - prima che la finestra di opportunità si chiuda.
In un mondo sempre più instabile, è probabile che le sanzioni continuino a essere usate con frequenza. Ma la lezione della storia è chiara: vanno maneggiate con cautela. Devono essere pensate come strumenti strategici, non reattivi; usate con parsimonia e progettate per anticipare - non subire - le conseguenze inattese.