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L'intermediazione, un ruolo chiave per cambiare lo scenario

, di Camillo Papini
Gli alti livelli di corporate giving di paesi come Inghilterra, Francia, Belgio o Svizzera si devono anche allo sviluppo di strutture che facciano da intermediari filantropici, spiega l'alumnus Marcello Gallo, presidente della Fondazione Donor Italia Onlus. Ma anche le istituzioni del Terzo settore devono fare un passo avanti, dotandosi, quando si raggiungono dimensioni elevate, di uno staff dedicato al rapporto con i donor

L'Italia non è ancora un paese per donatori, tanto meno se si tratta di aziende. Complici le piccole dimensioni della media delle imprese italiane, che ne limitano risorse e professionalità, ma anche la mancanza di interlocutori all'altezza nel terzo settore, il contesto del Corporate giving nel nostro paese segna una differenza significativa rispetto alle realtà di paesi vicini o addirittura confinanti come Svizzera o Francia. "Lo scenario, però, è in forte evoluzione", assicura Marcello Gallo, vicepresidente esecutivo di Intek Group, una laurea in Bocconi e oltre 35 anni di carriera nel mondo della finanza, ma anche co-fondatore di Dynamo Camp e oggi presidente della Fondazione Donor Italia Onlus, primaria realtà di intermediazione filantropica in Italia. "La diffusione dei principi Esg ha evidenziato che le imprese, anche quelle più grandi, soffrono una distanza marcata fra le dichiarazioni di intenti e le attività messe effettivamente in campo. Questa presa di coscienza ha però prodotto un trend positivo, ovvero quello di allontanare le funzioni aziendali che si occupano di sostenibilità dal marketing, come invece è sempre stato, per farle crescere presso l'imprenditore stesso o il top management, proprio perché si possano tradurre più concretamente in azione e non solo in comunicazione.

Lo scenario italiano, tuttavia, soffre di alcuni ritardi storici, a che cosa sono dovuti?
L'Edelman Trust Barometer segnalava, in una sua rilevazione recente, che in molti paesi le imprese sono percepite dalle persone come le controparti più affidabili in ambito sociale, prima dello Stato o della Chiesa. Non è così in Italia. Alle differenze storiche nella concezione di impresa e di filantropia che ci separano, per esempio, dal mondo anglosassone, si aggiungono problemi di welfare. Altrove le norme stimolano diversamente gli imprenditori e le aziende a redistribuire le risorse sul territorio o nella comunità dei dipendenti. La conseguenza è che paesi come Inghilterra, Francia, Belgio, ma soprattutto Svizzera, hanno una presenza e un volume di donazioni in ambito corporate molto superiore e questa differenza si vede anche nello sviluppo delle strutture di intermediazione filantropica, che hanno un ruolo chiave per cambiare lo scenario. Queste istituzioni agiscono infatti su un aspetto cardine che è la mancanza di linguaggio comune tra le imprese che vorrebbero stabilire un dialogo di tipo aziendalistico e le charity che, seppur meritevoli, non sono attrezzate per sostenere queste interlocuzioni.
Essendo un tema di competenze... da dove si comincia? Dalla formazione in azienda, dalle università, dal mondo non profit?
Non sono nella posizione di dare voti, ma credo che quello che deve fare un progresso maggiore sia proprio il terzo settore. Questi soggetti devono sensibilizzarsi rispetto al fatto che, specie quando si raggiungono dimensioni elevate, è necessario avere uno staff adeguato, che sia non solo preparato ma anche retribuito il giusto e, almeno in parte, dedicato proprio alla cura del rapporto con i donatori. Su questo fronte le università mi sembrano più attente, ci sono già numerosi corsi di laurea e iniziative di formazione che attirano tanti studenti. Io stesso ho una figlia laureata in Bocconi che mi ha raccontato che tanti suoi amici scelgono carriere indirizzate al sociale. La sensibilità dunque non manca, è ora che il mondo del lavoro si adegui considerando queste professionalità per quello che valgono. Piuttosto gli atenei potrebbero aumentare il numero di corsi brevi dedicati al personale del terzo settore, fornendo quell'impostazione manageriale e quelle conoscenze che chiedono i donatori corporate.
Quanto incide la mancanza invece di strumenti finanziari pensati ad hoc per le donazioni?
Nel mondo corporate, sia per consuetudine o per volontà di affermare il proprio brand, l'attività filantropica è spesso demandata a una fondazione. Costituire una realtà di questo tipo richiede però costi elevati, strutture impegnative e deve essere alimentata da un'attività continuativa. Il risultato è che molte fondazioni d'impresa, dopo la fase di avvio, restano bloccate: hanno fondi a disposizione, ma erogano con il contagocce o per nulla. Un intermediario filantropico come Donor Italia ha tra i suoi compiti, oltre quello di promuovere i Donor Advised Fund (Daf), anche quello di rivitalizzare queste realtà.
A proposito dei Daf, che cosa sono esattamente e come possono aiutare grandi imprese e PMI?
I Daf sono fondi filantropici nominativi, creati da un'organizzazione o da un individuo attraverso una donazione modale, e ospitati da fondazioni ombrello che assistono il donatore per aiutarlo a erogare in modo consapevole ed efficace, sicuro e strategico verso i destinatari che lui stesso ha individuato, sollevandolo da tutti gli obblighi legali, amministrativi e gestionali. Sono uno strumento utile che in Italia è per il momento meno diffuso che altrove, ma sono convinto che presto avrà successo anche da noi. Tengo a sottolineare che i Daf non sono l'unico servizio che Fondazione Donor Italia offre ai nuovi filantropi. Per esempio, siamo l'unico partner italiano di Transnational Giving Europe, il network costituito da 20 illustri fondazioni erogative europee, attraverso cui vengono facilitate le donazioni internazionali assicurando ai donatori certezza nel movimento dei fondi e la deducibilità fiscale secondo le previsioni del paese di residenza. Anche gli incentivi fiscali, e in particolare lo strumento della deducibilità, sono un tema che meriterebbe un maggiore approfondimento e intorno al quale si potrebbe costruire un dialogo migliore tra tutti gli attori, aziende, pubblico e terzo settore.


Laureato in economia politica in Bocconi con Mario Monti, Marcello Gallo è stato folgorato sulla via del management quando progettava per sé un futuro da economista. "Mentre aspettavo di cominciare a lavorare all'Ufficio Studi di Banca Commerciale Italiana feci uno stage come analista in Citybank", ricorda il vicepresidente operativo di Intek Group. "Quella esperienza di lavoro sulla finanza, in viaggio tra Milano e New York, mi fece scoprire un mondo appassionante e dal quale non mi sono più staccato". Arrivato nel gruppo Intek, si è occupato di private equity, di special situations, ovvero operazioni aventi per oggetto sia aziende in crisi che NPL e, oggi, di investimenti. È tra i fondatori, insieme a Enzo Manes e Serena Porcari, di Dynamo Camp e presidente di Fondazione Donor Italia. "Dall'esperienza in Bocconi ho imparato ad allenare la curiosità e la capacità di mettere in relazione tra loro tanti elementi diversi. È un po' il segreto di chi studia economia, che deve conoscere la teoria ma anche essere sempre cucito con la società, la politica, l'industria, il costume. Alla Bocconi devo anche il fatto di aver fatto un Erasmus quando ancora non esisteva. Andai quattro mesi a Parigi, all'Essec, e ricordo che quando lo raccontavo agli amici non credevano che fosse stata proprio l'università a consentirmi di andare".