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Gianmarco Ottaviano

Le elezioni europee e il futuro della globalizzazione

, di Gianmarco Ottaviano - cattedra Achille e Giulia Boroli in studi europei, translated by Jenna Walker
È possibile rispondere alla sfida lanciata dalla Cina senza inseguire un modello di sviluppo basato su un capitalismo di Stato incompatibile con lo spirito dell’Europa?

Con le imminenti elezioni del Parlamento europeo e la successiva nomina del Presidente della Commissione europea si deciderà la squadra che guiderà il Vecchio Continente per il prossimo quinquennio. Molti cittadini europei non sembrano capire l’importanza di questo voto, che viene spesso vissuta come irrilevante o come un test della tenuta dei governi nazionali.  

Nulla di più sbagliato, per almeno due ragioni. La prima è che la composizione del Parlamento ha implicazioni importanti per indirizzare le scelte politiche ed economiche europee. Come ricordano i siti istituzionali, dopo le elezioni, uno dei primi compiti del nuovo Parlamento è quello di eleggere il Presidente della Commissione europea, cioè dell'organo esecutivo dell'UE.  

Gli Stati membri nominano un candidato per l'incarico, ma devono tenere conto dei risultati delle elezioni europee. Il partito politico europeo che ottiene il maggior numero di voti ha infatti il diritto di presentare un candidato alla presidenza della Commissione a nome del Parlamento.  

La seconda ragione è che il quinquennio che ci aspetta sarà critico per il futuro economico (e non solo) degli Stati membri dell’Unione e dei loro cittadini, al crocevia tra nuova globalizzazione, competitività e sostenibilità.  

Tale futuro dipende, infatti, da come gli Stati membri riusciranno a fornire ai loro cittadini i beni e i servizi di cui hanno bisogno in un modo che sia al tempo stesso accessibile, affidabile e rispettoso dell’ambiente, navigando al contempo nelle acque agitate della crescente contrapposizione conflittuale tra blocchi di Paesi rivali.  

Fare sì che questo avvenga è la sfida che i nuovi parlamentari e commissari europei dovranno affrontare con urgenza, dal momento che gli Stati membri si sono impegnati a ridurre le emissioni di gas serra del 55% rispetto ai livelli del 1990 già entro il 2030 per poi diventare climaticamente neutrali nel 2050. Riuscirci non sarà facile per istituzioni europee forti e coese, lo sarà ancor meno se le istituzioni uscite dal voto saranno deboli e divise.   

Non soltanto pace e prosperità  

A partire dalla Seconda Guerra mondiale, proprio per contrastare alcune delle cause del conflitto – oltre che naturalmente alcune delle sue conseguenze – vi è stato un movimento internazionale, diplomatico e politico, volto a raggiungere un’integrazione dei mercati dei diversi Paesi che fosse globale e multilaterale, vale a dire che non lasciasse fuori nessuno.  

Operativamente, questo sforzo ha richiesto la creazione di organizzazioni internazionali quali le Nazioni Unite, la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e, successivamente, l’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC).  

Lo scopo di mettere tutti i Paesi attorno a un tavolo era di integrare le diverse economie in una maniera che fosse soddisfacente per tutti. Il risultato è stato lo sviluppo della globalizzazione in una direzione multilaterale, che ha raggiunto un punto di svolta nel 2001 in termini di partecipazione globale con l’ingresso della Cina nell’OMC.  

Visto inizialmente come il coronamento del processo di integrazione multilaterale, l‘ingresso di Pechino si è rivelato essere dirompente. Alla base del progetto multilaterale c’era infatti l’idea che il libero mercato fosse un prerequisito per il successo della crescita economico delle economie nazionali e che tale successo avrebbe avuto come naturale sbocco democratizzazione e pacificazione, in un circuito virtuoso di pace, libertà e ricchezza diffusa. 

 L’ascesa di Pechino ha scosso queste convinzioni, contrapponendo al modello di sviluppo basato sul libero mercato, in cui gli attori decidono e agiscono in maniera indipendente, un modello dirigistico alternativo, caratterizzato da un mercato regolamentato attraverso un coordinamento centralizzato sotto la guida di uno stato fortemente interventista.  

Una visione ormai diffusa, soprattutto negli Stati Uniti, è che proprio il dirigismo stia permettendo alla Cina di prendere il sopravvento, competendo slealmente sui mercati globali dopo avere fatto proprie – grazie agli scambi commerciali internazionali – le tecnologie sviluppate negli altri Paesi.  

Da qui è nata la reazione interventista di Washington e Bruxelles, dapprima latente e poi sempre più evidente, che è arrivata alla teorizzazione della necessità di un “nuovo” protezionismo e di una “nuova” politica industriale. Poiché per ora di “nuovo” sembra esserci solo il nome, il prossimo Parlamento e la prossima Commissione avranno la responsabilità di decidere come tradurre concretamente questa “novità” in pratica, senza rinnegare i propri principi di libertà economica e sociale.  

Le alternative europee al modello cinese  

È possibile rispondere con successo alla sfida lanciata dalla Cina senza clonarne il modello di sviluppo basato su un capitalismo di stato incompatibile con lo spirito dell’Europa? La risposta non è scontata, ma riuscirci sarà importante: nel migliore dei casi la concorrenza tra capitalismi di stato è un gioco a somma zero, nel peggiore a somma negativa. 

Una speranza però c’è ed un esempio in tal senso è offerto dalla transizione ecologica. L’Unione europea è fermamente convinta del fatto che il cambiamento climatico sia un problema globale che richiede soluzioni globali. Una causa importante del cambiamento climatico sono le emissioni di gas serra associate alla produzione ad alta intensità di carbonio.  

Lasciati a sé stessi, i produttori in genere non considerano l’impatto negativo delle loro emissioni sul clima. Da qui l’idea di utilizzare una tassa sulle emissioni di gas serra (nota anche come “tassa sul carbonio”) che, imponendo ai produttori un “prezzo equo” per tali emissioni, ie costringe a internalizzare il danno che la produzione ad alta intensità di carbonio arreca all’ambiente.  

Questa tassa è chiaramente un onere aggiuntivo per le imprese europee e ne riduce la competitività rispetto alle imprese di Paesi che non tassano le emissioni. L’Ue sta provando a risolvere questo problema con una soluzione unilaterale, chiamata “meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere” (Carbon Border Adjustment Mechanism, CBAM).  

Questo meccanismo impone un “dazio sul carbonio” sulle importazioni di prodotti che sono a rischio di maggiore perdita di competitività (come cemento, ferro e acciaio, alluminio, fertilizzanti, elettricità, idrogeno). Il CBAM è stato introdotto lo scorso maggio nell’ambito del Green Deal ed entrerà in vigore nel 2026. 

Il CBAM può riuscire a creare le condizioni per una competizione equilibrata all’interno del mercato unico tra prodotti europei e prodotti importati. Può invece fare ben poco per aiutare le imprese dell’Ue a competere sui mercati esteri con i produttori di paesi che non tassano le emissioni. A tal fine sarebbe necessario un sussidio alle esportazioni, difficilmente compatibile con le attuali regole dell'Organizzazione mondiale del commercio.  

Si dovrebbe quindi lavorare ad un nuovo accordo multilaterale che permetta al singolo Paese aderente di scegliere tra l’adozione di una tassa sul carbonio concordata a livello globale e, in caso di mancata adozione, l’accettazione di una compensazione di tale tassa tramite una combinazione di dazi sulle proprie esportazioni di prodotti ad alta intensità di carbonio e sussidi alle proprie importazioni di tali prodotti provenienti da paesi che invece adottano la tassa. 

Questo è solo un esempio di come problemi globali, quali il cambiamento climatico, richiedano soluzioni multilaterali.  

Anche se andare in questa direzione non sembra essere di moda, i prossimi parlamentari e commissari europei dovrebbero pensarci prima di abbandonarsi alla deriva nazionalista e protezionista di Pechino e Washington. 

GIANMARCO OTTAVIANO

Bocconi University
Dipartimento di Economia

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