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La legge della relatività

, di Simone Lonati
Con la modifica dell'articolo 4bis, che non elimina la presunzione in sè, ma il suo carattere assoluto, il legislatore, su imput della Corte Costituzionale, si è mosso per superare l'ergastolo ostativo. Ma sono molte le ombre su cui ancora fare luce

Presunzioni legali di tipo assoluto, in un ordinamento giuridico fondato sul principio della riserva di legge e giurisdizione in materia penale (art. 13 della Costituzione), non dovrebbero trovare diritto di cittadinanza: sono il sintomo di un sistema "malato" che si fida poco dei propri giudici. L'effetto ultimo di ogni presunzione iuris et de iure, e del rigido automatismo normativo che ne consegue, è infatti quello di svilire il significato della riserva di giurisdizione, relegando, di fatto, le prerogative della magistratura a mera attività di certificazione notarile.

Di tali presunzioni, davvero, non se ne avverte la necessità.
Tanto più in un particolare settore dell'ordinamento giuridico, quello penitenziario, dove il finalismo rieducativo della pena (art. 27 della Costituzione) impone di riservare sempre alla magistratura di sorveglianza la valutazione individualizzata dei progressi compiuti dal condannato in vista del progressivo reinserimento in società, perché se è vero che il carcere è pena per gesti che non andavano compiuti, altrettanto vero è che la persona è mai tutta in un gesto che compie, buono o cattivo che sia.

Se si condividono queste premesse, le due pronunce (sentenza 253/2019 e ordinanza 97/2021) con le quali la Corte costituzionale ha decretato il superamento della presunzione assoluta alla base del congegno ostativo prefigurato dall'art. 4 bis della legge sull'ordinamento penitenziario (numero 354/1975) segnano certamente un traguardo importante nel percorso volto a ricondurre l'ergastolo sotto la copertura costituzionale.
Nella sua originaria fisionomia, come noto, l'art. 4 bis dell'ordinamento penitenziario prevedeva, nei confronti di una nutrita serie di condannati per reati di "grande criminalità" (organizzata e non), un divieto di accesso alle misure alternative alla detenzione e agli altri benefici penitenziari, superabile esclusivamente in virtù di una condotta qualificata: l'utile collaborazione con la giustizia (in concreto: la denuncia di altri) la quale, in forza di una presunzione legale assoluta, assurgeva a indice legale di sicuro ravvedimento.

Le censure della Corte, in entrambe le pronunce, si sono appuntate proprio sulla (troppo) rigida equazione normativa "collaborazione uguale ravvedimento": perché la collaborazione è un atteggiamento processuale, mentre il ravvedimento è uno stato interiore; perché la scelta di collaborare può anche essere sintomatica di valutazioni puramente utilitaristiche e così, il suo opposto, il silenzio, non necessariamente è indice di perdurante pericolosità sociale; perché c'è differenza, in definitiva, tra premiare la collaborazione e sanzionare la mancata collaborazione.

Sia chiaro: la Consulta non ha censurato la scelta di considerare la collaborazione con la giustizia come una possibile condizione per l'accesso ai benefici penitenziari, quanto invece l'opzione di considerarla come condicio sine qua non, unica alternativa capace di escludere tutte le altre. Detto altrimenti: non la presunzione in sé, ma il suo carattere assoluto.
Di qui, in nome di prioritarie esigenze di collaborazione istituzionale, il monito rivolto al legislatore chiamato a trasformare da assoluta in relativa la presunzione di pericolosità sociale derivante dalla scelta di non collaborare e, contestualmente, a individuare le condizioni che consentissero al detenuto che decide di non collaborare di poter accedere altrimenti ai benefici penitenziari.

L'invito della Corte, almeno questa volta, non è rimasto inascoltato.
Il legislatore, anche per evitare ulteriori rilievi d'incostituzionalità, si è fatto carico delle proprie responsabilità licenziando il testo di una riforma (d.l. n. 162/2022 conv. con mod. in l. n. 199/2022) che, pur imboccando la giusta direzione, tuttavia, non va certo esente da dubbi e perplessità.

Va subito detto che nel "nuovo" art. 4 bis ord. penit., la collaborazione con la giustizia, pur rimanendo la via maestra, non è più - e non poteva essere altrimenti – condicio sin qua non per accedere ai benefici penitenziari. Sulla carta, non c'è dubbio, la presunzione assoluta è stata trasformata in una presunzione relativa che, quanto meno in astratto, si presta ad essere contraddetta dalla prova contraria.

In astratto, appunto.
In concreto le cose stanno molto diversamente.

In assenza di collaborazione con la giustizia, infatti, il legislatore ha previsto paletti alquanto stringenti e condizioni oltremodo difficili da dimostrare per accedere ai benefici premiali: al detenuto è ora chiesto di allegare specifici elementi che consentano di escludere, non solo l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, ma anche – si badi bene – il pericolo di un loro futuro ripristino. Un requisito, quest'ultimo, tanto evanescente da evocare sciamaniche capacità predittive: di fatto si chiede al condannato di dimostrare che un domani continuerà a non esistere ciò che già oggi non c'è. L'onere della prova è a dir poco diabolico, se non proprio impossibile: è davvero il caso di chiedersi, allora, se la presunzione legale assoluta di pericolosità sociale per il non collaborante sia davvero stata eliminata o se, nella sostanza, dietro il velo dell'apparenza, sia comunque ancora presente.

Certo, molto dipenderà dalla concreta applicazione della riforma, ma la sensazione è che il Parlamento non abbia saputo (o voluto) cogliere sino in fondo le precise indicazioni della Corte costituzionale volte a ristabilire quel diritto alla speranza che, in base alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, deve essere garantito ad ogni detenuto.

SIMONE LONATI

Bocconi University
Dipartimento di Studi Giuridici

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