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Le nostre prigioni

, di Melissa Miedico
Sovraffollate, con i migranti che rappresentano il 31% dei reclusi (mentre rappresentano solo il 10% della popolazione in Italia) e con politiche che ostacolano i progetti di rieducazione dentro e fuori. Guardando gli istituti di pena con gli occhi dei detenuti (non solo stranieri) la domanda a cui è sempre più difficile rispondere è: quali reati si vogliono prevenire?

Il sovraffollamento negli istituti penitenziari è oramai allarmante: al 31 ottobre 2023 si trovano recluse 59.715 persone a fronte di una capienza di 51.275 posti (dati Ministero della Giustizia). Gli stessi dati evidenziano che i migranti sono più spesso destinatari di condanne penali concretamente eseguite all'interno del carcere e di provvedimenti di custodia cautelare in carcere rispetto ai cittadini italiani. I migranti ad oggi presenti sul territorio italiano, del resto, sono circa il 10% della popolazione (si tratta di una stima che comprende migranti regolari e irregolari): i detenuti stranieri invece sono circa il 31%.

La maggiore incidenza della presenza di persone migranti all'interno delle carceri è riconducibile alla mancanza di supporto e assistenza fuori dal carcere e alle condizioni di estrema marginalizzazione in cui queste persone sono costrette a vivere. Un primo elemento che accomuna tutti gli stranieri (in libertà o reclusi) è costituito dalla crisi profonda del nostro sistema di welfare. Le risorse sono scarse (abitazioni di edilizia popolare pubblica, servizi sociali, sistema sanitario ecc.): tale situazione ha ricadute ancor più incisive sui migranti, dato che spesso non hanno un tessuto familiare o altre risorse per uscire dal profondo disagio in cui si trovano.

Per gli stranieri detenuti, la situazione è ancora più drammatica. L'assenza di documenti o la scadenza del permesso di soggiorno durante la pena sono vere e proprie sciagure che colpiscono la persona detenuta e a cui è davvero difficile porre rimedio. Chi è privo di documenti non potrà vederseli rilasciare se non recandosi personalmente al proprio Consolato, cosa che non potrà fare chi è recluso. Senza un documento valido (passaporto o identificativo) la persona difficilmente otterrà un codice fiscale e, dunque, l'accesso ai benefici penitenziari. In questo modo, però, si finisce per rinunciare anche alla finalità rieducativa della pena.

Se poi scade il permesso di soggiorno mentre si è in carcere le strade per il rinnovo sono precluse o complessissime, anche a causa di procedure che difficilmente sono compatibili con lo stato di reclusione (impossibilità delle Questure a recarsi in carcere e assenza di convenzioni con il servizio postale) e a cui il sistema carcerario fa fatica a porre rimedio per via delle scarse risorse. La presenza di mediatori poi è insufficiente a coprire le esigenze delle persone detenute che talora non parlano alcuna parola di italiano e che sono culturalmente lontanissime da qualsiasi minima competenza in materia di responsabilità penale, reati e procedure. È difficile, poi, per le persone straniere, l'accesso a misure in libertà per l'assenza di idoneo domicilio e lavoro sul territorio (aggravati poi talora dall'assenza di una regolarizzazione), ostacolandosi così l'avvio di percorsi rieducativi all'esterno anche a chi abbia commesso fatti di scarsa gravità.

Se questo è ciò che succede 'dentro', non possiamo non stigmatizzare quello che succede fuori dagli istituti penitenziari. I migranti scontano una vulnerabilità estrema a cui non riusciamo a far fronte: progressivo taglio degli strumenti di welfare, tempi lunghi delle regolarizzazioni - come la sanatoria 2020, le cui verifiche non si sono ancora concluse, procedure inaccessibili per le modalità informatiche previste e per l'assenza di mediatori negli uffici dei servizi essenziali producono anni di precarietà e preoccupazione per intere famiglie.

Tutto questo segrega, esclude, somma fragilità ad altra fragilità, ghettizza, impoverisce, non consente alcun tipo di accesso a forme di sostegno alla povertà e alla vulnerabilità. Tutto questo, come sappiamo bene, porta inesorabilmente - in tanti casi - a sentimenti di rabbia e ribellione e, a volte, alla commissione di reati. Non ci stupiamo dunque se queste vulnerabilità le ritroviamo sempre più spesso nelle carceri, se si considera che gli interventi di riforma prendono spesso di mira le classi disagiate e i soggetti fragili, pensando di risolvere qualcosa con l'introduzione di nuovi reati o con l'inasprimento delle sanzioni penali.

Si parla tanto di ragioni di sicurezza e ancora troppo poco si fa per sostenere percorsi di mediazione e riparazione che potrebbero servire a tale scopo. Ma - soprattutto - i dati sulla recidiva ci dicono che questo carcere non fa nulla per ridurla. I dati sono pochissimi, bisogna denunciarlo: anche questa è una responsabilità e un indice di scarsa volontà di fare valutazioni attente e profonde, ma quelli che ci sono parlano di una recidiva intorno al 60% per coloro che scontano la pena in carcere. Tale dato parrebbe abbattersi per chi sconta la pena fuori dal carcere con idonei strumenti di controllo, di supporto e di assistenza o ancora in carceri 'modello' ove l'attenzione si concentra su seri progetti di risocializzazione.

Ma allora le politiche pan-penalistiche di questi anni, che stanno producendo l'impennata di presenze negli istituti di pena (sempre più disumani) e riducendo le possibilità di progettualità rieducative, quali reati vogliono prevenire, quali vittime vogliono proteggere?

MELISSA MIEDICO

Bocconi University
Dipartimento di Studi Giuridici

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