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Infrastrutture: con meno rischio politico, tutto quadra

, di Stefano Gatti - associato presso il Dipartimento di finanza
La regolazione settoriale e il timore di possibili nazionalizzazioni sono diventati temi centrali per gli investitori anche nei paesi piu' avanzati. Senza stabilita' del quadro regolatorio non e' possibile chiedere ai privati di rimpiazzare gli investimenti pubblici in continuo calo

Nel corso degli ultimi 15 anni, gli investimenti in infrastrutture si sono imposti come un segmento degli alternative investments con uno dei tassi di crescita più rilevanti. La ragione è che gli investitori hanno visto in questa asset class una ottima combinazione Diy: diversification (rispetto ad attivi più tradizionali come azioni, obbligazioni e strumenti di money market), inflation protection (le infrastrutture sono spesso assistite da meccanismi di definizione dei prezzi agganciati all'inflazione) e yield (le infrastrutture offrono un rapporto rischio-rendimento superiore a investimenti fixed income e sono meno rischiose di investimenti in azioni su mercati quotati).
Gli investitori privati considerano le infrastrutture un 'porto sicuro' viste le loro caratteristiche tipiche: alta intensità di capitale, lunga durata, servizi essenziali con bassa elasticità della domanda al prezzo, regimi di monopolio o quasi monopolio, settori regolati e con alte barriere all'entrata.
Quest'ultima caratteristica, cioè la regolazione settoriale, e quindi il controllo pubblico e – per certi versi – politico delle infrastrutture, si è trasformata recentemente da un vantaggio ricercato dagli investitori per proteggere i rendimenti del proprio investimento nella principale incognita nel processo di selezione degli asset. In effetti, la regolamentazione è una lama a doppio filo: da un lato, essa protegge gli investimenti degli incumbents da una concorrenza che, specialmente su orizzonti temporali lunghi, potrebbe ridurre significativamente i margini di profitto e la generazione di cassa.

Dall'altro lato, tuttavia, un investitore che impiega capitali in un settore regolato è ostaggio di possibili cambi di regolamentazione, di cambiamenti della normativa, di rinegoziazione dei termini su cui si fondano le concessioni tra soggetto pubblico e soggetto privato.
Gli investitori privati, industriali e finanziari sono da sempre consapevoli dei rischi di realizzazione e sviluppo di un progetto infrastrutturale: questi rischi riguardano sia gli aspetti ingegneristico-costruttivi della fase di costruzione sia quelli più direttamente riferiti alla fase operativa (rischio di domanda, rischi di approvvigionamento, rischi di cattiva o subottima manutenzione e gestione). Essi, tuttavia, sono anche in grado di gestirli in virtù delle proprie competenze di mercato, gestionali ed operative.
Quello che gli investitori, purtroppo, non sono in grado di gestire, e che quindi li rende riluttanti a impiegare capitale privato nello sviluppo di infrastrutture, è la variabile esogena rappresentata dal rischio politico e dal rischio regolatorio. Non è possibile, ed è stato affermato in diverse occasioni, richiedere un rilevante intervento di capitale privato come sostituto di investimenti pubblici ormai ampiamente inferiori rispetto a un notevole gap infrastrutturale (nella sola Unione Europea stimato in circa 12 mila miliardi di euro entro il 2040) se il quadro regolatorio non rimane stabile per un arco temporale idoneo allo sviluppo di progetti a lungo termine.

In passato, il tema del rischio politico e regolatorio era essenzialmente confinato a economie emergenti che cercavano di attrarre capitale privato per la realizzazione di progetti infrastrutturali. Nel corso degli ultimi anni, tuttavia, il tema è diventato di rilevanza cruciale anche per i paesi sviluppati, anche in quelli più aperti a processi di privatizzazione degli investimenti. Lo stesso Regno Unito sta vivendo un intenso dibattito politico che ha portato il partito laburista ad affermare che una delle prime manovre in caso di vittoria elettorale sarebbe la nazionalizzazione del servizio ferroviario e del servizio idrico, due servizi con una lunga tradizione di gestione privata.
In questo quadro, come si intuisce, risulta più difficile che in passato trovare una quadratura del cerchio: mancano investimenti in infrastrutture, i governi non sono in grado di finanziare il gap, il settore privato ha risorse finanziarie e competenze in grado di colmare almeno in parte il gap stesso ma i privati affrontano un ambiente politico ostile con il quale è difficile arrivare ad un accordo.