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“Finalmente c’è domanda di più Europa, ora tocca ai governi e alle istituzioni rispondere”

, di Stefano Feltri
Mario Monti, il senatore a vita e presidente onorario dell’Institute for European Policymaking at Bocconi University, fa un bilancio della legislatura europea che si chiude e spiega cosa può cambiare dopo il voto

Nei suoi ultimi interventi pubblici, il presidente francese Emmanuel Macron è diventato il portavoce di un pessimismo totale sul futuro dell’Unione europea: o si adegua subito al nuovo contesto geopolitico ostile, o è destinata a sparire.

Il senatore a vita Mario Monti, due volte commissario europeo e poi presidente del Consiglio italiano, dopo aver lasciato la presidenza della Bocconi è diventato presidente onorario dell’Institute for European Policymaking, creato dalla Bocconi per ricordarne la legacy. Ed è meno pessimista di Macron.

Nel suo nuovo libro "Demagonia - Dove porta la politica delle illusioni" (Solferino), Monti mette in guardia dal rischio che le nostre democrazie liberali perdano legittimità perché i governi si preoccupano troppo del consenso di breve periodo e non abbastanza di ottenere risultati concreti nel medio. 

Però c’è un segnale che invita all’ottimismo, e che Monti sottolinea: per la prima volta da decenni, i cittadini europei chiedono con decisione più Europa, più politiche europee ambiziose ed efficaci, all’altezza di quelle che hanno funzionato nell’arginare le crisi di questi anni, in particolare durante e dopo la pandemia da Covid-19. 

Questa richiesta di Europa è il risultato più incoraggiante dei cinque, tumultuosi, anni seguiti alle elezioni europee del 2019. Adesso, alla vigilia del voto dell’8 e 9 giugno per il parlamento europeo, è tempo di bilanci e di aspettative sul futuro prossimo. 

 

Presidente Monti, qual è la posta in gioco alle elezioni europee 2024 e in cosa sono diverse dalle precedenti, quelle del 2014 subito dopo la crisi del debito, e quelle del 2019 subito prima della pandemia? 

Quelle del 2019 sono state le elezioni europee nel segno di Brexit, di Donald Trump, e di analoghi fenomeni all’interno degli Stati membri dell’Unione europea, in termini di populismo e sovranismo. Il tema centrale era: riusciranno o no i populisti e sovranisti a dare la spallata, a Strasburgo e Bruxelles, all’Unione europea? Non ci sono riusciti a livello europeo, ma è successo qualcosa di importante a livello italiano.

L’Italia è stato l’unico paese che - a seguito delle elezioni del 2019 -  ha mandato al Parlamento europeo parlamentari appartenenti in maggioranza a partiti sovranisti, soprattutto Lega e Cinque stelle che in quella fase erano al governo a Roma.

L’insuccesso a livello europeo dei sovranisti, ma il diffuso timore per la loro forza, ha contribuito - secondo me - a dare un tono diverso dal passato e più incisivo alle successive politiche dell’Unione europea.

In particolare la risposta al Covid, pur con tutte le sue approssimazioni, ritardi, imprecisioni, è stata vigorosa sia nel campo sanitario, con la Commissione che ha risposto alla richiesta di intervento comunitario da parte degli Stati, sia soprattutto nella politica economica di accompagnamento all’uscita dalla pandemia.

Se non ci fosse stato il brivido da rischio sovranista, forse l’Unione europea sarebbe stata meno proattiva e più in continuità con la sua tradizione di estrema cautela finanziaria. 

 

Oggi che il timore dei sovranisti è rientrato, le elezioni guardano soltanto all’esterno, al ritorno della guerra dentro e intorno all’Europa? 

Se pensiamo all’Italia in particolare, le forze politiche che hanno un’agenda europea sovranista o sono scomparse o sono taciturne. O hanno avuto un loro processo di apprendimento, in particolare Fratelli d'Italia che ha vissuto dall’opposizione il trauma sovranista di quando Lega e Cinque stelle hanno cozzato contro il muro di Bruxelles. E ne ha tratto qualche lezione.

Adesso la preoccupazione è soprattutto per il mondo esterno, dove l’agenda europea è resa più difficile dal fatto che l’unico fallimento nella storia della progressiva integrazione dell’Ue al quale non sia stato posto rimedio nel breve-medio termine è la mancata ratifica del trattato sulla Comunità europea di difesa del 1954.

Nel 2022, con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, ci siamo accorti che non si trattava soltanto di uno dei tanti aspetti da completare della costruzione europea, ma di una voragine gigantesca e pericolosa. 

 

Quindi per il Parlamento, la Commissione e il Consiglio la sfida della prossima legislatura sarà superare quello stallo sulla difesa?

Penso di sì, e questo richiederà ai nuovi europarlamentari una visione al contempo molto più vasta e concreta. I parlamentari europei di solito diventano profondi conoscitori delle preoccupazioni e degli interessi delle varie categorie - industriali, agricole ecc. - oppure si occupano di questioni di alto profilo, come i diritti umani nel mondo.

Adesso la Storia li costringerà a occuparsi sia di questioni che attengono il modo in cui l’Ue si rapporta con il mondo, sia di aspetti terribilmente concreti che riguardano eserciti, spesa militare e industriale, e così via. 

 

L’idea di introdurre un commissario europeo alla Difesa è un passo nella giusta direzione? 

Penso che sia utile. E’ sempre stato così, quando una competenza passa a livello comunitario, viene indicato un commissario responsabile. E’ successo per esempio per Giustizia e Affari interni. 

Avere un commissario con il compito di pensare e costruire una difesa europea, distinto dal vicepresidente responsabile per la Politica estera, può essere molto opportuno. 

Questo si lega al quid agendum dell’Unione europea nei prossimi cinque anni. Ho trovato molto interessanti alcuni sondaggi che hanno indagato l’opinione degli elettori sulle politiche europee. Per la prima volta, nelle posizioni alte di gradimento ci sono le politiche comuni, anche sulla difesa.

Come conciliare questo, con il fatto che invece stiamo vivendo in campo economico, ma anche identitario e forse perfino spirituale, un ritorno alla nazione? 

I cittadini vogliono sicurezza, capiscono che può venire soltanto su una base coordinata e comune, una consapevolezza analoga a quella maturata riguardo sanità e crisi climatica. 

Anche gli Stati membri sanno che serve maggiore azione comunitaria, ma sono più attaccati dei cittadini alla sovranità nazionale e ai poteri esercitabili a livello nazionale che questa comporta. 

Abbiamo molti precedenti rilevanti su questo. C’è stata una lunga fase nella quale tutti vedevano una necessità di introdurre una moneta unica europea, ma le due categorie più potenti - cioè i ministri delle Finanze e i governatori delle banche centrali - non volevano rinunciare alle loro prerogative. 

La forza delle cose, però, li ha portati prima a volere la moneta unica e poi a realizzarla. E oggi sono pochissimi quelli che vorrebbero tornare indietro. 

I prossimi cinque anni determineranno le possibilità di quello che l’Ue può fare nel mondo e di come proiettarsi all’esterno. Spero non con missili, ma con valori e interessi.

 

Chi guiderà il processo per la costruzione di una difesa comune? Il Parlamento, la Commissione, il Consiglio europeo? 

Sarà sicuramente il Consiglio europeo a stabilire cosa integrare e come negli apparati di difesa. Poi altri soggetti si preoccuperanno dei dettagli, ma toccherà ai capi di Stato e di governo nazionali riuniti nel Consiglio europeo definire quali passi fare. Dunque, saranno importanti le elezioni a livello nazionale che stabiliranno chi siederà nel Consiglio europeo. 

Chi vuole più Europa deve rispondere a una nuova domanda - che finalmente c’è - di politiche comunitarie vincendo le immutate resistenze dei governi nazionali a cedere sovranità. 

 

Il Consiglio è destinato a rimanere potente. Ma in questa legislatura si è affermata una forte leadership della presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, che infatti si candida a un secondo mandato. Che bilancio fa di questi cinque anni di Commissione?

La Commissione von der Leyen nel complesso esce bene, rispetto ad altre del passato. Molto per merito della presidente, che è una dei rari presidenti di Commissione che non è mai stata capo di un governo nazionale. Come Jacques Delors, che era stato “solo” ministro delle Finanze. 

La Commissione si è guadagnata voti più alti nei primi anni che negli ultimi, perché ha gestito meglio di quanto ci si potesse attendere la crisi pandemica - anche inventando strumenti nuovi - ma anche perché questi ultimi anni hanno determinato un certo logoramento nei suoi rapporti con gli Stati membri, e tra alcuni Stati, per le diverse posizioni rispetto a Kiev e, soprattutto, rispetto a Mosca.

Probabilmente il desiderio di von der Leyen di essere confermata, ha reso meno ferrea la coerenza delle posizioni della Commissione in alcuni contesti, per esempio verso la rivolta del mondo agricolo che ha fatto vacillare la determinazione nel perseguire un obiettivo cruciale per questa Commissione, cioè contrastare il cambiamento climatico. 

Comunque, oggi più che in passato, agli occhi dell’opinione pubblica l’Unione europea è la sua Commissione, e la Commissione è la sua presidente. Forse essere cittadina di un paese forte, la Germania,  ed essere stata portata alla presidenza dal capo del governo di quel paese forte - Angela Merkel - e dal presidente del secondo paese più forte - Emmanuel Macron - ha permesso a von der Leyen di esercitare il suo ruolo con il massimo dell’impatto. 

Quindi bene la presidente della Commissione, meno bene il rapporto – troppo poco autonomo - della Commissione con il Consiglio. 

 

In discorsi e interviste recenti Emmanuel Macron si è detto molto pessimista sul futuro dell’Unione europea, quasi ne temesse un crollo imminente. Condivide questo allarme?

Il presidente Macron ha la propensione tipica dell’intellettuale francese a guardare i fenomeni nella loro longue durée, che è una componente essenziale della politica, soprattutto europea. 

Nel considerare le prospettive di lungo periodo si possono però fare errori di previsione nel breve, come quando Macron aveva segnalato “l’encefalogramma piatto” della Nato che invece ha ritrovato nuova centralità in risposta alle azioni di Vladimir Putin. 

Che l’Unione europea, come tutte le costruzioni umane - e questa è una costruzione molto necessaria ma particolarmente ardita - possa un giorno finire male è una eventualità alla quale pensare. Ma nell’immediato non vedo questo rischio, che invece era più concreto alla vigilia delle elezioni del 2019.

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