Il bank officer (e politico) in campo contro la poverta'
Chiunque ami il proprio lavoro nasconde in sé, nemmeno troppo velatamente, l'ambizione che questo sia anche utile alla società, abbia uno scopo più alto e che trascenda le soddisfazioni personali. Patrizio Pagano da questo punto di vista può dirsi sereno perché la World Bank, l'organizzazione internazionale nella quale è direttore esecutivo per l'Italia e non solo, è una banca tutta particolare, nata come ente di sostegno allo sviluppo dei paesi in difficoltà. Nel 1947 erano Europa e Giappone, oggi sono le nazioni emergenti dell'Africa, dell'America Latina, dell'Asia e dell'Europa dell'Est, inclusi i cosiddetti Brics. Nei corridoi del building di Washington, stretto tra i giardini della Casa Bianca e i palazzi del Fondo Monetario Internazionale, si lavora per un obiettivo dichiarato, tanto ambizioso quanto netto: ridurre a meno del 3%, entro il 2030, la percentuale di popolazione mondiale che vive in condizioni di estrema povertà e favorire una crescita economica inclusiva.
Entriamo subito nel merito di questo obiettivo. Considerato che oggi questa percentuale è poco sotto al 10% questo risultato è davvero possibile?
Credo di sì. Tenete presente che nel 1999 era al 29% e questo significa, in termini assoluti, che il numero di chi vive con meno di 2 dollari al giorno è sceso di oltre un miliardo di unità, soprattutto per effetto dell'espansione di paesi come Cina e India, in un momento in cui la popolazione mondiale è cresciuta di quasi un miliardo e mezzo di persone. Un risultato non banale insomma, anche se la parte più difficile è quella che ci attende ora perché, come sanno gli sportivi, sono proprio gli ultimi metri quelli più difficili. Passare dal 10% al 3 è una vera impresa, soprattutto oggi che la Cina sembra rallentare e molti paesi emergenti sono in situazioni difficili. Servirà un volume di investimenti notevoli, che, come già accade ora, non potrà venire solo dalla Banca Mondiale o da aiuti pubblici ma dovrà arrivare sempre più dai privati.
Quali sono le leve, non solo economiche, attraverso le quali opera la Banca Mondiale per incidere in maniera determinante sulla situazione economica di un paese in difficoltà?
La banca sostanzialmente eroga dei finanziamenti. Le soluzioni, dunque, sono spesso di tipo finanziario. La finanza creativa, che nella crisi recente spesso è stata distorta a beneficio solo di alcuni, è in realtà uno strumento tra i più efficaci per allineare gli interessi di tutti intorno a un intervento necessario. Quest'anno il gruppo World Bank, che è composto da quattro istituti – due che finanziano il settore pubblico e due che operano col settore privato – presterà quasi 68 miliardi di dollari nel complesso. Una cifra enorme, anche se comunque irrisoria nel flusso di capitali privati che confluisce verso i paesi in via di sviluppo. Tuttavia a volte lo studio del caso ci suggerisce che la soluzione migliore non è sempre una complessa operazione finanziaria ma può essere, per esempio, un semplice cash transfer. Si tratta sempre di capire qual è lo strumento più adeguato per ottenere i risultati migliori.
Nella sua posizione lei in quale fase interviene maggiormente? Nell'elaborazione dei progetti, nella definizione dei prestiti, nel lavoro diplomatico con i governi locali?
In quanto direttore esecutivo per l'Italia, ma anche per l'Albania, la Grecia, Malta, il Portogallo, San Marino e Timor-Est, la mia posizione è più politica che manageriale. Io siedo nel board, che è l'insieme dei rappresentanti degli azionisti, cioè i paesi membri, dovendo indossare un doppio cappello, quello di rappresentante dei paesi che ho citato ma anche quello di bank officer che, quando vota sui progetti, lo fa nell'interesse della banca.
A dispetto di quanto l'economia e la finanza cambino velocemente, l'esito di un lavoro come il suo si misura in anni, se non in decenni. Quali sono gli strumenti che l'aiutano maggiormente nel prendere decisioni così a lungo termine?
Il problema della lentezza e della complessità del nostro modo di operare è reale e crea molta frustrazione perché stride di fronte invece all'emergenza dei problemi. Una cosa che aiuta molto in questi casi è andare sul campo. Accade abbastanza spesso perché per consuetudine il board della banca si reca nei paesi destinatari dei progetti per fare le opportune verifiche e parlare con gli stakeholders, ovvero le popolazioni locali. Qui ci si rende conto della difficoltà di operare in settori molto diversi, dalla giustizia all'istruzione, dalla sanità alle infrastrutture, di dover gestire il trade off, cioè il fatto che qualsiasi decisione abbia risvolti negativi per qualcuno, e di tenere fede a principi cardine come quello che l'implementazione dei progetti sia a carico dell'istituzione locale e che dunque siano i governi dei paesi a gestire i bandi degli appalti, seppure con le regole dettate dalla banca.
Da Soverato, dove è cresciuto, alla Bocconi di Milano, dall'Italia a Washington... qual è stato il salto maggiore? C'è più distanza tra la provincia italiana e le grandi città o tra l'Italia e gli Stati Uniti?
Quando sono arrivato a Washington mi sentivo preparato ad affrontare l'incarico che mi veniva affidato. Ero già stato a Londra negli anni dopo la laurea e negli Usa per un periodo di ricerca. Non avevo paura, insomma. Se ripenso invece al viaggio da Soverato a Milano quello sì che era un salto nel buio, fatto con tanto entusiasmo, ma anche molta consapevolezza della distanza non solo geografica tra le due realtà.