Ambasciate 2.0: la sfida passa anche dai social
La diplomazia insegue il cambiamento, il continuo mutamento dello scacchiere internazionale. Si evolve e affina il suo approccio e, in questo continuo adattamento, è anche il linguaggio a cambiare. Con l'esplosione dei social network, ad esempio, anche la diplomazia ha dovuto fare i conti con un linguaggio nuovo, diverso, molto più diretto. Lo conferma Marco Landolfi, 46 anni e una laurea in Bocconi in economia politica, Consigliere di Ambasciata (First Counselor) presso la sede di Washington dove lavora come capo ufficio stampa e comunicazione.
Come parla oggi la diplomazia italiana in un contesto così importante come gli Usa?
La Farnesina si è tenuta al passo con la rivoluzione digitale e sta investendo molto, su impulso del Ministro Tajani, nella comunicazione, anche digitale. Negli Usa, la patria dei social media, la nostra Ambasciata è all'avanguardia. Abbiamo lanciato un nuovo sito web, in linea con quello del Ministero, e siamo attivi su YouTube, Instagram, Facebook e Twitter. Comunichiamo agli americani l'Italia a 360 gradi, amplificando la posizione delle nostre autorità sui temi di attualità internazionale e promuovendo le eccellenze italiane. Ci rivolgiamo anche ai nostri connazionali qui e all'enorme comunità degli americani di origine italiana. Inoltre, con una serie di incontri sulla Digital Diplomacy, siamo diventati anche un foro di dialogo sui temi dell'innovazione.
Il vostro linguaggio è cambiato?
Lo abbiamo sburocratizzato: 140 caratteri o 2 minuti di video sono una sfida complessa. Sappiamo che dobbiamo essere chiari, autorevoli e allo stesso tempo attraenti. Su impulso della nostra Ambasciatrice, Mariangela Zappia, abbiamo organizzato un corso di gestione dei social network che poi la Farnesina ha messo a disposizione di tutti i dipendenti. In raccordo con il nostro Ministero degli Esteri e con le autorità di Usa e Paesi like-minded siamo impegnati anche sul fronte della lotta alla disinformazione, un pericolo al quale siamo tutti esposti.
Che differenza c'è tra la stampa americana e quella europea?
Le testate storiche americane, anche alcune di quelle a diffusione regionale, sono enormi rispetto alle nostre e possono permettersi di avere giornalisti molto più specializzati per tema o area geografica. Gli Usa sono poi la culla dell'innovazione anche nei media: penso a testate come Axios e Semafor, che sulla scia di Politico hanno adottato nuovi canali e modelli di business, come le newsletter tematiche. Inoltre, l'opinione pubblica e la stampa americana sono più concentrate di quelle europee sul piano della politica interna. È qui che la sfida di attirare l'attenzione del pubblico americano si fa più complessa.
Parliamo di lei. Come è arrivato a ricoprire questo ruolo?
Il mio percorso in diplomazia è cominciato nel 2003: la prima Ambasciata all'estero – un passaggio che non si scorda mai – è stata quella di Teheran, dal 2007 al 2011. Ricordo le contestazioni dell'onda verde per la rielezione di Mahmud Ahmadinejad e il nostro sostegno concreto ai manifestanti feriti. O l'evacuazione che abbiamo condotto insieme ai colleghi francesi del personale dell'Ambasciata britannica, assaltata dai Basiji nel 2011. Dopo Teheran, sono stato per 4 anni presso l'UE a Bruxelles, anche nel semestre di presidenza italiana. Poi dal 2015 di nuovo alla Farnesina, all'Ufficio del Consigliere Diplomatico di Palazzo Chigi e infine in distacco a Cassa Depositi e Prestiti. Nel 2020 sono approdato a Washington, dove ho avuto l'opportunità di lavorare al Dipartimento di Stato americano, un vero tempio della diplomazia, e poi in questa Ambasciata, una delle più grandi e prestigiose della nostra rete!