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Quegli indizi che hanno messo Federica sulla strada del civil service

, di Camillo Papini
Federica Irena Falomi è head of programme della UN Technology Bank for the Least Developed Countries. Un ruolo, quello di international civil servant a supporto dei bisogni dei paesi in via di sviluppo, che ha sentito nascere in sé un poco alla volta

Capita che due esami universitari in particolare facciano sorgere un’intuizione, che un’esperienza di volontariato in Kenya la confermi e che una passione sportiva vissuta prima da giocatrice e poi da allenatrice aggiunga altri indizi. “Sono piccoli segni che emergono nella realtà e aiutano ognuno di noi a scoprire cosa vuole fare davvero nella vita. Il mio consiglio è fare attenzione a questi segni, a tutti. Non è facile seguire le proprie intuizioni, spesso servono coraggio e fiducia per navigare nell’incertezza delle percezioni, mantenendo una certa dose di realismo”, racconta Federica Irene Falomi, laureata in Economia aziendale e management, specializzatasi poi in Economic and social sciences.

“Non ho maturato immediatamente la consapevolezza di cosa avrei fatto nella vita”, sottolinea Falomi. “Inizialmente, mi sono accorta di avere un interesse per il settore pubblico più che per quello privato. Durante il periodo di scambio negli Usa, sfidante su tanti livelli, dalla lingua nuova al clima sottozero, ho iniziato ad apprezzare meglio l’economia come possibilità di studio della realtà. Poi gli esami di valutazione delle politiche pubbliche e di economia dello sviluppo mi hanno definitivamente appassionata all’analisi rigorosa degli interventi per la crescita socio-economica e delle loro conseguenze”, continua Falomi che oggi è oggi head of programme della UN Technology Bank for the Least Developed Countries (LDCs), dopo aver ricoperto diversi ruoli in Italia e all’estero. Qui coordina il lavoro tecnico dell’organizzazione, occupandosi prevalentemente di sviluppare analisi dei bisogni tecnologici per i governi dei Paesi LDCs e implementare progetti per facilitare lo sviluppo di competenze tecnologiche, la condivisione del know-how e il trasferimento di tecnologie tra i Paesi.

Il periodo della formazione e anche quello dell’ingresso nel mondo del lavoro non seguono percorsi lineari: “non mi era chiaro come fare professionalmente ciò che desideravo e, a volte, ho trovato più porte chiuse che aperte”; ecco perché occorre saper mettere in fila gli spunti, coglierne gli orientamenti più importanti, secondo Falomi che, dalle riflessioni su economia, settore pubblico e crescita socio-economica, è arrivata a diventare una funzionaria dell’organizzazione delle Nazioni Unite a supporto dei 45 paesi meno sviluppati nel mondo, con un mandato specifico alla spinta tecnologica e dell’innovazione. “Ricordo comunque che, quando allenavo giovani pallavoliste, ho visto emergere in me una passione nel coltivare talenti, sostenerli, capire cosa motiva le persone. Ecco un altro segnale a cui ho guardato per capire cosa ero “chiamata a costruire”, come mi ha suggerito il mio primo capo”. 

Il ruolo del funzionario internazionale ha, non a caso, nella sua versione inglese (international civil servant) la radice del mettersi a servizio. Infatti, dopo l’incontro con il mondo dei Paesi in via di sviluppo che le ha cambiato la vita, adesso per Falomi la componente relazionale è più che mai basilare dovendo generare risultati concreti in contesti complessi. Ci sono infatti i rapporti con culture differenti, in cui “è fondamentale riconoscere le peculiarità di ciascuno e rispettare l’altrui dignità umana, anche se è un impegno che parte già a contatto con la mia squadra di lavoro, in maggioranza femminile”, conferma Falomi. “E dire che ho avuto solo capi uomini. Da loro ho imparato molto: davanti a colui che sarebbe diventato il mio primo responsabile, ancora in sede di colloquio, mi ero persino commossa. Il motivo? Impersonava il lavoro come una grande avventura relazionale, fatta innanzitutto di passione per l’umano e tentativi di migliorare angoli di mondo. Esattamente quello che stavo cercando”, chiosa la professionista che, alla luce di questa sua impostazione, sostiene di non aver un role model preciso e guarda alle persone, più che alla distinzione tra uomini e donne.

“La diversità? È un valore”, ribadisce Falomi, in collegamento da Istanbul dove vive. “Se donne e uomini si completano, s’impara reciprocamente senza che predomini una parte o l’altra. Basta ricordarsi sempre di quello che si ha da offrire e fare bene il proprio lavoro, con costanza e senza misurarsi o paragonarsi ad altri. Anche quando ci sentiamo un po’ disorientati. Il disorientamento è un motore che smuove situazioni. Per fare un passo in avanti bisogna sbilanciarsi”.