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Vi facciamo causa

, di Federico Farina
Si fanno chiamare “law firm” e dietro le quinte di tutte le grandi operazioni finanziarie ci sono i loro avvocati: sono gli studi legali d’affari, aziende “full service” molto ambite dai giovani laureati e capaci di fatturare anche 120 milioni di euro all’anno

Raccontano le cronache che, nei giorni subito precedenti all'ufficializzazione della fusione tra le due banche Unicredit e Capitalia, nell'ufficio di piazza Cordusio dell'istituto milanese fossero riuniti tutti gli strateghi dei due gruppi. Qualcuno andava, qualcun altro veniva, due sole persone non hanno mai abbandonato Alessandro Profumo e Cesare Geronzi. I loro avvocati d'affari. Ombre silenziose e discrete dei vertici aziendali, consiglieri ma soprattutto artefici materiali di molte operazioni che riempiono le cronache economiche di questi anni, i consulenti legali oggi interpretano un ruolo strategico decisivo nella gestione di un'impresa e nelle sue trasformazioni. Un ruolo quasi completamente concentrato nella città di Milano, dove sono riuniti i maggiori studi italiani, le cosiddette "law firm", come Chiomenti, Bonelli-Erede-Pappalardo, Gianni-Origoni-Grippo, Alberto Pedersoli, Nctm e anche le sedi italiane delle sigle di matrice anglosassone, dall'americano Cleary Gottlieb Steen & Hamilton ai londinesi Clifford Chance, Allen & Overy e Freshfields. "La metropoli deindustrializzata", ha scritto Chiara Beria di Argentine sul quotidiano La Stampa del 26 marzo scorso, "in piena crisi d'èlite imprenditoriali e politiche, senza più neppure i rassicuranti salotti buoni, investita da cicloni economico-giudiziari [...] sembra diventata la terra forse di conquista, certo di ottimi affari, per eccelsi professionisti. Una nuova élite che gioca da protagonista in tempi di economia transazionale (ovvero degli accordi tra parti spesso in lite), come la chiama il sociologo Guido Martinotti. Quelli che il finanziere Francesco Micheli chiama i Grandi sacerdoti della conoscenza. Più che luminari della medicina sono i maghi dei codicilli".

"Gli studi citati, insieme a pochi altri, coprono quasi interamente il mercato", precisa Luigi Arturo Bianchi, docente di Diritto commerciale all'Università Bocconi e of counsel dello studio Bonelli-Erede-Pappalardo. "Poche law firm fanno le grandi operazioni, c'è una fascia intermedia di buoni avvocati che si aggregano in qualche occasione e poi c'è una massa di freelance che svolge attività più ordinarie". Gli obiettivi più ambiti di molti laureati in Giurisprudenza che vogliono specializzarsi in fusioni e acquisizioni, capital markets, diritto comunitario o normative antitrust sono dunque gli indirizzi dai grandi portoni in legno, con scale di marmo e uffici affacciati sulle vie del centro. Come quello di via Barozzi, dietro al quale si dispiegano gli 8mila mq di uffici dello studio Bonelli-Erede-Pappalardo, un'azienda "full service" con oltre 62 soci, 300 professionisti, centinaia di stagisti e praticanti e un fatturato che, nel 2006, ha raggiunto i 120 milioni di euro. "Si entra come stagista, ma non solo", racconta l'avvocato Bianchi. "La selezione dei giovani avviene innanzitutto sulla base del titolo di studio e dell'argomento della tesi di laurea. È difficile, per esempio, che un laureato in diritto penale trovi posto in queste realtà". Meglio i curricula che, fin da subito, hanno preso la direzione del diritto commerciale o comunitario. Ancora meglio se al termine c'è un bel 110 e lode. Molti si aspettano, però, che la propria preparazione basti a farsi largo in questi corridoi. E invece restano doppiamente delusi. "Innanzitutto perché, tranne rarissime eccezioni, i laureati italiani arrivano impreparati al lavoro in uno studio legale", spiega Bianchi. "E poi perché, per il tipo di impegno richiesto e il genere di informazioni di cui si viene a conoscenza, le doti personali hanno un peso molto rilevante". Serietà, discrezione assoluta, nessuna concessione alla mondanità e al gossip, e anche una certa elasticità mentale sono le doti più gradite. "Ho notato che oggi, tra i giovani, c'è la tendenza a volersi specializzare fin da subito", continua il docente. "Un'abitudine mutuata dagli studi anglosassoni, nei quali se uno comincia a occuparsi di banking, continuerà a farlo per sempre. È un grave handicap, secondo me. Forse porta più rapidamente al successo, ma fa perdere un elemento formativo prezioso come la capacità di misurarsi con problematiche diverse".

Insieme a quello dei consulenti, il lavoro degli avvocati d'affari è quello che gode della fama peggiore. Niente orari, niente weekend, riunioni la domenica, persino il giorno di Natale. Un impegno che è compensato dalla sensazione di essere davvero protagonisti dei mutamenti del panorama economico internazionale. "In realtà, entrambi questi aspetti sono un po' mitizzati", ammette Bianchi. "Il lavoro ha momenti più o meno intensi. Ci sono, è vero, settimane di stress ininterrotte, ma anche periodi nei quali si riesce a staccare la spina. Allo stesso modo, all'interno di uno studio, non sono molti gli avvocati che si occupano di strategia e partecipano alle riunioni dei direttivi aziendali. La maggior parte del lavoro è fatta di routine e di pratiche standardizzate". Quello che non è un mito sono gli stipendi degli avvocati d'affari italiani, i più alti al mondo, secondo un'inchiesta del Financial Times. "Questo capita perché in Italia abbiamo un'incidenza dei costi più bassa e meno investimenti in tecnologia rispetto agli studi anglosassoni", conclude Bianchi. "In Inghilterra, per esempio, hanno una struttura di paralegal, cioè di persone che si occupano dell'archiviazione dei documenti, della formattazione, del back office, della biblioteca, che costa molto ma della quale non possono fare a meno perché, per loro, la letteratura su un argomento, i precedenti e i cosiddetti forms sono fondamentali". In Italia, dunque, un giovane brillante nell'arco di 10 anni può diventare socio junior e partecipare anche degli utili, guadagnando così cifre davvero considerevoli, superiori spesso ai colleghi laureati in Economia.