Sotto la bandiera dell’Onu per aiutare i paesi più svantaggiati
“Ho visto uccidere un ragazzo a pochi passi da me ad Haiti per aver rubato una Coca-Cola, ho estratto dalle macerie mamme con bambini che si tenevano per mano, ho conosciuto famiglie recluse in casa per la vergogna di essere troppo povere. Ma con il lavoro per l’Onu credo di aver contribuito anche a cambiare le condizioni di tanti, promuovendo sussidi, efficientando le amministrazioni, migliorando la qualità della vita, soprattutto di donne, appoggiando per esempio migliaia di piccole imprese femminili”.
La carriera di Rita Sciarra, dopo la laurea al Clapi nel 2004, ha preso subito una rotta internazionale con destinazione i paesi più svantaggiati del mondo. India, Tanzania, Bolivia, Repubblica Dominicana, Haiti, Messico e oggi Panama, dove è Team Leader regionale per la crescita inclusiva e la riduzione della povertà nell’hub del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP). “Essere un funzionario delle Nazioni unite è un traguardo che ho voluto con tutte le mie forze, ma è anche un impegno personale, oltre che professionale, non indifferente. Significa muoversi sempre con una bandiera addosso. Nei paesi dove vado rappresento sempre un'istituzione che attira aspettative e critiche altissime; essere italiana a volte aiuta tanto, per la percezione bella che si ha del nostro paese”. Un fardello di fatiche e di emozioni che rende preziose le giornate ma dal quale, ogni tanto, si sente la necessità di prendersi una pausa. “La prima volta a me è capitato dopo l’ennesimo uragano ad Haiti”, racconta. “Ero sfinita e volevo tornare a fare qualcosa per me. Ho mandato un’application a Yale per una borsa di studio e sono stata selezionata, prima donna italiana, per il programma Yale World Fellow e per sei mesi sono tornata a studiare, a dare lezioni, e a confrontarmi con professionisti di ogni ambito. La seconda invece ero in Messico e sono rimasta incinta. Ho avuto la necessità di tornare a casa mia, in Calabria, per partorire mio figlio, che volevo nascesse in un ospedale pubblico. All’ospedale di Cosenza ho rivisto l’eroismo del personale sanitario di certi paesi poveri, dove si lavora in condizioni proibitive, e ho avuto la conferma della grande importanza di proteggere la sanità pubblica per dare un servizio di qualità a tutti. È una questione di diritti, di dignità”.
Oggi i figli sono due e da Panama, dove vive, dirige un team di esperti che identifica, protegge e rinforza le capacità dei più vulnerabili in 26 paesi dell’America Latina e dei Caraibi. “Cerchiamo di considerare la povertà non solo dal punto di vista economico e di affrontarla con un approccio multidimensionale, intervenendo su più fattori, dai servizi sociali alle politiche del lavoro, che pesano sulle condizioni delle famiglie e soprattutto delle donne”. Pensando alla propria condizione femminile, si sente particolarmente fortunata. “Stando alle statistiche, essendo donna, nata in un piccolo paese della Calabria da due genitori insegnanti, la mia mobilità professionale e sociale avrebbe dovuto essere limitata. Il mio riscatto è stato possibile perché l’organizzazione UNPD è costituita anche da tante donne e, in questo senso, ho potuto percepire meno le diseguaglianze esistenti. Però le norme sociali restano maschiliste e questo aspetto si sente e si soffre molto quando ci si muove sul campo. Girando il mondo si capisce come il ruolo della donna sia purtroppo ancora legato a stereotipi universali, e che in molti paesi cosiddetti avanzati non si dia il buon esempio: il gender gap economico e retributivo che vige ancora in Italia o la mancanza di politiche di Care Economy, per esempio, sono delle enormi ingiustizie nel 2024. Anche qui c’è ancora tantissimo lavoro da fare”.