Se la risonanza magnetica entra in tribunale
Fra gli ambiti di maggiore interazione tra scienza, processo e diritto penale, occupa un ruolo di stretta attualità il campo delle neuroscienze, ossia di quel complesso di scienze che studiano le interrelazioni fra meccanismi cerebrali e comportamento umano. Si tratta di tecniche complesse, dotate di un grado di soggettività elevato sia nella realizzazione che nella lettura dei risultati. Hanno valenza statistica in quanto si fondano su una generalizzazione empirica ricavata induttivamente dall’esperienza comune e avulsa dal fatto concreto da dimostrare. Si basano su teorie delle quali non sempre è noto il tasso di errore e in relazione alle quali risulta spesso impossibile mettere in atto il tentativo di smentita.
Tali metodologie scientifiche, utilizzate sempre più spesso non solo nelle aule giudiziarie statunitensi, si distinguono in base al loro utilizzo. Vi sono anzitutto tecniche (PET, fMRI) in grado di valutare lo stato mentale dell’imputato perché forniscono indicazioni sulle sue condizioni neurologiche attraverso l’analisi del flusso sanguigno in una determinata regione del cervello. Vi sono, poi, strumenti di lie detection e di memory detection (Brain Finger Printing, l’Implicit Association Test, oltre alla già menzionata fMRI) che possono contribuire alla ricostruzione del fatto perché capaci di valutare la capacità di ricordo del testimone. In estrema sintesi, l’assunzione alla base di questi studi sulla corteccia celebrale è che mentire rispetto a dire la verità, comporti processi mentali quantitativamente e qualitativamente diversi. Quando mentiamo dobbiamo inibire la risposta veritiera e fabbricare una risposta fasulla che dobbiamo ripetere fedelmente ogni volta che ci venga posta la stessa domanda. Da un punto di vista cognitivo tutto questo comporta uno “sforzo mentale” maggiore che chiama in causa i meccanismi dell’attenzione e della memoria come pure quelli della pianificazione, del pensiero astratto e del controllo.
Al netto dell’evidente contributo che tali tecniche possono apportare al vincolo di realtà imposto al diritto penale, l’invito è quello di muoversi su questi temi come ospiti, pieni di premure, con delicata attenzione. Le metodologie neuroscientifiche, infatti, sono in grado di condizionare la capacità di autodeterminarsi della persona e la sua attitudine a ricordare correttamente e valutare criticamente i fatti per il timore che i possibili esiti dell’esplorazione del cervello possano essere assunti acriticamente come elementi pregiudizievoli, o mortificanti o stigmatizzanti. Da questo punto di vista, è evidente la tensione che si può creare tra l’uso delle neuroscienze e alcuni principi fondamentali come il rispetto della libertà morale e della stessa dignità della persona umana. Del resto, la tutela della dignità dell’uomo, quale ricavabile dal paradigma normativo costituito dalle disposizioni costituzionali e sovranazionali, impedisce la trasformazione del corpo e della sua sfera psichica in una fonte immediata di elementi di prova che dovrebbero, invece, emergere per effetto dell’oralità. Il valore della ricerca della verità processuale, per quanto assuma centrale posizione nel sistema costituzionale e sovranazionale, non può, quindi, essere considerato preminenterispetto al valore costituito dalla dignità della persona umana e della tutela della sua sfera d’intangibilità, col quale va invece composto e bilanciato in modo equilibrato e armonico. Naturalmente questo, se siamo tutti d’accordo che indurre o costringere chi parla ad ammettere ciò che non avrebbe mai liberamente ammesso se non profanando il suo interno psichico è lesivo della dignità umana. E se conveniamo tutti sul fatto che ridurre l’uomo e le sue azioni a una serie di dati da leggere in un’aula giudiziaria, trattabili automaticamente da un sistema esperto, freddamente elaborati da una macchina e ritenuti in grado di spiegare il comportamento dell’agente, sia incompatibile con il rispetto della dignità umana.