Riflettendo sulle recenti statistiche del World Food Programme
Nella scrittura, come nell'architettura contemporanea, il vuoto e l'assenza rispondono a precise scelte: hanno sempre un preciso significato che viene esaltato dalla forma che lo comunica. Oggi, tuttavia, è problematico interpretare il significato del vuoto con cui anche la più autorevole stampa specialistica sceglie di comunicare (?) lo stato di attuazione degli impegni assunti da molti paesi inerenti al World Food Programme dell'Onu, istituito per contrastare la crisi alimentare che colpisce una porzione crescente della popolazione mondiale.
Il vuoto di notizie nell'ultimo anno è singolare: pur trattandosi di impegni unilaterali assunti su base volontaria da parte di alcuni stati membri dell'Onu e costituendo le dichiarazioni ufficiali del Wfb al più atti di soft law, le statistiche pubblicate dall'Agenzia e il contenuto del Programma sono state oggetto di massiccia divulgazione da parte dei media internazionali fino a metà del 2007, nonché uno degli argomenti più frequenti su cui erano esaminati i giovani pre-selezionati per i programmi di associazione delle principali istituzioni economiche internazionali, tra cui la World Bank. Dopo un po' di ricerca emerge, comunque, un dato significativo: a fronte di migliaia di dollari spesi per rimettere in sesto i principali istituti finanziari del mondo e arginare la crisi finanziaria scoppiata l'anno passato, i 12,3 miliardi di dollari previsti dall'Onu per finanziare il Programma nel 2009 sono stati oggetto di progressivo ridimensionamento a causa delle difficoltà che i paesi donatori devono tuttora affrontare. Che le odierne restrizioni finanziarie costituiscano una circostanza attenuante per la sostanziosa riduzione subita dal Programma dell'Onu è difesa facilmente accessibile. Tuttavia, svestendosi dei panni un po' patetici del demagogo, occorre interrogarsi sulle strade praticabili, anche se strette ed accidentate, per ridurre al minimo i rischi di future crisi economiche della portata di quella attuale. Esperti, pur di estrazione assai diversa, come Jacques Attali, George Soros e Joseph Stiglitz, concordano nell'indicare tra le politiche economiche necessarie a evitare una prossima depressione planetaria, una più equa ridistribuzione della ricchezza, che affranchi i più dalla necessità di ricorrere al debito (poi da altri cartolarizzato, travestito e venduto su scala globale) per soddisfare i meri bisogni primari. Una politica, dunque, di ampio respiro da attuarsi e sostenersi con percorso necessariamente collettivo e a livello internazionale, al pari delle riforme di governance indicate dal rapporto pubblicato a ottobre dalla UN Conference on the world financial and economic crisis and its impact on development. Rimane tuttavia il problema dell'indicazione dei meccanismi politici che obblighino a raggiungere l'interesse individuale (che la scienza economica moderna ha dimostrato orientare l'agire degli esseri umani) solo dopo un percorso collettivo. I recenti rapporti dell'Onu, a cui nemmeno è attribuita dignità di notizia, dicono molto in proposito: verosimilmente per pressioni interne, i governi dei principali paesi donatori, hanno individualmente deciso di rallentare e sospendere l'attuazione del Programma, che molto prima dello scoppio della crisi economica globale mirava a garantire una delle quattro libertà fondamentale di cui Roosevelt parlò già nel 1941, la libertà dal bisogno.