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Purpose: all’esame di maturità

, di Gianmario Verona
Dalla lettera di Larry Fink alle sfide attuali, tra il ritorno del neoliberismo, la revisione delle normative europee e il dietrofront di grandi aziende sui principi DEI, il concetto di purpose rischia di ridursi a un esercizio stilistico. Ma se il lungo termine è la vera bussola delle imprese, sarà la capacità di coinvolgere gli stakeholder a decretarne il successo o il fallimento

Per il purpose il 2025 è l’anno dell’esame di maturità. 

Come tutte le novità aziendali e istituzionali etichettate per entusiasmo come “best practice”, l’esame avrà un ruolo significativo nella sua vita.

Se supererà l’esame, il purpose diventerà un momento essenziale nello sviluppo di un’impresa. Se non lo supererà, cadrà nel dimenticatoio delle tante mode aziendali, che infiammano amministratori delegati e consigli di amministrazione per una o poche stagioni, grazie anche alla spinta ricevuta da advisor e società di consulenza che anche di mode si nutrono. 

Ma per predire l’esito dell’esame, come farebbe oggi qualsiasi modello di intelligenza artificiale, srotoliamo sinteticamente il film del purpose.

L’idea di dotarsi di un purpose aziendale - cioè uno “scopo”, una “finalità ultima” istituzionale . è ascrivibile alla oramai celebre lettera di Larry Fink della influente Blackrock nel 2018 ai CEO legati all’azienda. Il mondo del nuovo millennio era cambiato pesantemente in seguito alle tre crisi finanziarie (dot-com bubble nel 2000, subprime nel 2008 e debito sovrano nel 2011) e soprattutto aveva crescentemente acquisito consapevolezza di un cambiamento climatico galoppante e una progressiva divisione economica sia tra ceti sociali sia tra parti del mondo emergenti e consolidate. A tutto ciò si aggiunga che era diventato palese che gli stati democratici occidentali stavano facendo sempre più fatica a star dietro a spese crescenti su sicurezza, istruzione, sanità, per citare le principali. Il settore privato poteva e doveva fare di più. Dotarsi di un purpose era un esercizio di sintesi utile per valorizzare il contributo aziendale in termini di impatto dell’azienda sul contesto circostante e avere una bussola di riferimento.

In realtà l’astuto Fink non faceva altro che cristallizzare in un progetto aziendale un tema storicamente importante e celebrato già agli albori della teoria dell’economia d’impresa - il richiamo al loro orientamento ai portatori di interesse (in inglese gli stakeholder) oltre agli azionisti. Questi ultimi sono interessati a profitto e dividendi. Tutti gli altri -dai fornitori ai consumatori, passando attraverso lavoratori, minoranze e tutte le comunità su cui l’azienda impatta, incluso stato e territorio- ne hanno di altri più specifici. I lavoratori hanno come riferimento il loro salario e il proprio benessere lavorativo; i consumatori, la soddisfazione che traggono dai prodotti e servizi che ricevono; e così via. Tutti però, inclusi gli azionisti, ne hanno uno in comune: il “lungo termine”, cioè la sopravvivenza dell’azienda. Il purpose è proprio quella dimensione filosofica, ma potenzialmente anche decisamente empirica che aiuta a raggiungere il lungo termine. 

Qualche anno fa facemmo un complicato esercizio in Bocconi per giungere a sintetizzare il purpose dell’Università. Ne venne fuori l’espressione “Knowledge that matters”, che ci sembrava ben racchiudesse le radici, l’evoluzione storica e soprattutto la traiettoria prospettica dell’ateneo fondato a Milano nel 1902 dall’imprenditore Ferdinando Bocconi. Produrre e disseminare “conoscenza che conta” poteva rappresentare bene le ragioni dell’esistenza e della sopravvivenza nel lungo termine dell’ateneo e aiutava a catalizzare le forze di tutti gli stakeholder.

Nonostante l’entusiasmo collettivo, che aveva portato diverse associazioni di CEO in USA e in Europa a cavallo del Covid a incontrarsi per finalizzarlo in documenti ufficiali, il corporate purpose è stato negli anni scalfito dall’evoluzione degli eventi. Fino al tracimare in quest’anno complesso di guerre, MAGA, DOGE, e dove tutto è messo in discussione da un individualismo e un neoliberismo che sembrano tornare imperanti. Del resto, se le big tech che si occupano di media si rimangiano il fact-checking che, dopo lo scandalo di Cambridge Analytica, era stato voluto proprio per proteggere gli utenti, che fine farà mai il loro corporate purpose? 

E se alcune delle big four del mondo della revisione si imbarazzano negli Stati Uniti a continuare a reclamizzare i principi DEI sulla diversity, equity and inclusion, che loro stesse avevano sponsorizzato per rendere il mondo aziendale un posto migliore, che ne penseranno i loro stakeholder più deboli? 

E se anche da questa parte dell’Atlantico, la Commissione Europea che si era fatta forte di tappe cadenzate per mitigare la C02 rivede le date e addirittura sembra fare marcia indietro sulla CSRD, la direttiva europea sulla corporate social responsibility, che devono dire gli amministratori di aziende che stavano cominciando a imporre i protocolli ai loro manager per rispettarle? 

Insomma, lo passerà o no questo esame? 

Certamente non lo passerà se chi governa l’azienda nel suo indirizzo strategico, nel controllo e nella sua guida, si farà guidare dalla confusione di questo momento critico e penserà al purpose come semplice esercizio stilistico da mettere nel piano strategico. 

Lo passerà invece se chi governa l’azienda si renderà conto dell’importanza di quello che predica da sempre la buona teoria d’impresa: ovvero che il lungo termine è figlio dell’attenzione e quindi degli incentivi che diamo a tutti o almeno a buona parte degli stakeholder che ruotano intorno al business model della nostra istituzione. Che, oltre a produrre un sano profitto, deve avere anche una finalità rotonda e di impatto per tutti. E quindi qualche riflessione sul corporate purpose nei tavoli degli organi di governano converrà impostarla.

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