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Procedure alternative, ecco il vero fallimento

, di Marcello Gaboardi - associato presso il Dipartimento di studi giuridici
Nell'ultimo biennio sono aumentate vertiginosamente, ma le società ci arrivano quando tutto è ormai compromesso

Quale impatto stanno avendo le riforme del diritto fallimentare degli ultimi anni sullo stato della nostra economia e sulle condizioni patrimoniali delle nostre imprese?

La domanda sembra più che giustificata se si considera il costante incremento del numero dei fallimenti registrato dopo il 2008, l'annus horribilis dal quale ha avuto inizio la crisi economico-finanziaria che sta colpendo, in misura più o meno intensa, le economie di tutto il mondo.Da uno studio pubblicato recentemente dal tribunale di Milano è emerso che, nel biennio 2012-13, i fallimenti dichiarati dai giudici milanesi sono aumentati addirittura del 24% rispetto al biennio precedente, rivelando come l'incremento dei fallimenti sia una conseguenza non solo di alcuni interventi normativi, ma anche delle peggiorate condizioni generali dell'economia, dei mercati e del mondo imprenditoriale.Ancor più significativo è l'incremento delle procedure alternative al fallimento, soprattutto il concordato preventivo che, secondo il tribunale di Milano, nel biennio 2012-13 è stato scelto dal 76% in più delle imprese in crisi rispetto al biennio precedente. Tuttavia, la fiducia riposta dagli operatori e dalle imprese in questo istituto – sul quale il legislatore è intervenuto da ultimo col Dl n. 69/2013 – si è spesso rivelata soltanto un'illusione. Le imprese ricorrono, infatti, troppo tardi ai rimedi destinati alla riorganizzazione aziendale o alla ristrutturazione patrimoniale, chiedendone l'ammissione quando ormai le possibilità di rimediare alla crisi sono inevitabilmente compromesse. Per non dire, poi, di quei casi in cui le richieste di ammissione al concordato assecondano finalità dilatorie della liquidazione fallimentare e dell'accertamento di responsabilità degli organi sociali.Alcune delle ultime novità legislative – come l'ammissione con riserva al concordato – sono state addirittura "piegate" nella prassi ad un utilizzo gravemente inadeguato, che ne ha imposto un'immediata revisione normativa volta proprio a contenere abusi o malfunzionamenti.Ecco allora che la recente stagione di riforme, se ha opportunamente modificato la fisionomia del diritto fallimentare rendendolo meno orientato alla punizione del fallito e più alla gestione dell'insolvenza, ha saputo però solo in parte prevenire i meccanismi della crisi, trascurando soprattutto quei fenomeni che hanno aggravato maggiormente la situazione delle imprese. Mancano, infatti, strumenti che consentano un'emersione tempestiva dell'insolvenza, che operino cioè in un momento in cui sono ancora realmente praticabili soluzioni non puramente liquidatorie. D'altra parte, se uno degli obiettivi delle riforme è stato quello di incentivare le soluzioni extrafallimentari della crisi, va da sé che uno degli strumenti con cui perseguire tale obiettivo non può che essere quello di cominciare a gestire la crisi in un momento in cui l'impresa conserva ancora le sue capacità produttive.In questa prospettiva, sarebbe auspicabile ad esempio l'assegnazione agli organi di controllo delle società di poteri-obblighi di segnalazione della crisi agli organi decisionali e, in assenza di adeguate iniziative, all'autorità giudiziaria affinché vengano avviate azioni per la continuità aziendale. Va detto che l'assenza di simili prerogative nel nostro attuale ordinamento fallimentare viene almeno in parte surrogata da una meritoria giurisprudenza di merito che, sulla scorta del potere di concedere misure cautelari nel corso dell'istruttoria prefallimentare, si è spinta talvolta ad ammettere la nomina di un custode giudiziario dell'impresa o, addirittura, di un amministratore giudiziario con poteri negoziali.