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Più forti del diavolo: la Fiat

, di Franco Amatori
Tra fascismo e miracolo economico

Un patto con il diavolo, quello fra la Montecatini di Guido Donegani e il Governo fascista:Donegani ottiene da Mussolini un "proibitivo dazio" sui concimi azotati che consente al capo della Montecatini un indiscusso predominio nella chimica italiana ed una notevolissima accumulazione a spese degli agricoltori. In cambio, la Montecatini riceve dal Duce il comando di effettuare una serie di salvataggi e di tenere in vita produzioni obsolete che costituiranno una zavorra tale da risultare fra gli elementi più negativi per la società milanese nel dopoguerra e in definitiva una delle cause più rilevanti della fallimentare fusione con la Edison.

Anche la Fiat di Giovanni Agnelli ottenne dal Duce un simile grande favore, a tal punto che Agnelli comunicò a Mussolini che la sua decisione sarebbe stata ricordata a caratteri d'oro nell'atrio del quartier generale dell'impresa torinese. Di cosa si trattava? Anche in questo caso ci troviamo in presenza di un dazio proibitivo, quello eretto dal Duce contro la concorrenza internazionale, in particolare quella della Ford. Alla fine degli anni Venti la grande impresa americana era sbarcata in forze in Italia, a Trieste, con un impianto di assemblaggio e un'organizzazione di distribuzione. Ma con grande abilità politico-diplomatica, si apprestava a trasferirsi a Livorno dove poteva contare sull'entusiastico supporto di Costanzo Ciano, il futuro, potentissimo consuocero del Duce, quello a cui un ironico canzonettista dedicherà il motivetto "maramao perché sei morto".

Agnelli si mosse con grande determinazione, riuscendo a superare ogni lobby contraria. Mussolini dichiarò il settore automobilistico industria riguardante la difesa nazionale, per la quale quindi era necessaria una particolare autorizzazione da parte del capo del governo. Ciò consentì nel 1930 di fermare ancora una volta l'iniziativa della Ford, quando questa, per aggirare ogni ostacolo, tentò di acquisire l'Isotta Fraschini. In realtà Agnelli non intarsiò mai le pareti del più importante edificio della Fiat con i caratteri d'oro che aveva promesso a Mussolini riguardo alle sue decisioni. Anzi, assunse posizioni che certamente il Duce non apprezzò.Impedì alle organizzazioni fasciste di occuparsi del welfare aziendale; pur nel solco delle direttive del regime, salvaguardò l'indipendenza de La Stampa, il quotidiano di cui si era impadronito dopo l'uscita di scena di Alfredo Frassati; non consentì che alcuna posizione di responsabilità alla Fiat fosse assegnata per benemerenze politiche; soprattutto, non tenne in nessun conto il parere contrario del Duce,che temeva le concentrazioni operaie, a proposito della costruzione del grande stabilimento di Mirafiori.

In questo modo Agnelli salvò la Fiat, ponendo le basi per il suo straordinario successo nel secondo dopoguerra, allorché la casa torinese, dopo il 1950, in poco più di un decennio decuplicò la sua produzione consentendo all'Italia una motorizzazione di tipo americano.

Come mai Agnelli riuscì a difendersi dal "diavolo" a differenza di Donegani? Ne ho discusso anni fa in un dibattito con il biografo di Giovanni Agnelli, nonché storico "ufficiale" della Fiat, Valerio Castronovo. Castronovo ritiene che Agnelli riuscì a proteggere le sue scelte avendo alle spalle l'establishment torinese, dalla monarchia... alla classe operaia.Io penso invece che nell'Italia degli anni Trenta, un'azienda che produceva su larga scala concimi ed esplosivi era più importante di una che si dedicava alle automobili (non più di 60.000 all'anno). La Montecatini dovette quindi subire le attenzioni del Duce in misura molto maggiore e, purtroppo per lei, con esito non certo positivo.