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Mandiamo al confino la pena di morte

, di Arianna Vedaschi - professore ordinario di diritto pubblico comparato
Le esecuzioni capitali sono ormai circoscritte a regimi autoritari, democrazie incerte e paesi i cui governi, come negli Stati Uniti e in Giappone, sono convinti si tratti di un'equa risposta a crimini con un forte disvalore sociale

La celebrazione della giornata mondiale contro la pena di morte non solo spinge ad un bilancio teso alla conta degli ordinamenti in cui è ammessa o vietata, ma ripropone anche argomenti sottesi ad un ormai annoso dibattito.
Nel corso dell'ultimo decennio, il numero dei paesi che ricorrono alla pena capitale si è gradualmente ristretto mentre si è progressivamente allargato quello dei paesi (totalmente) abolizionisti, oggi diventati 103, grazie all'inserimento della Mongolia, che, all'inizio del 2016, ha riformato il proprio codice penale. In parallelo, negli ordinamenti che ancora la prevedono, si registra una tendenza emendativa volta a ridurre le fattispecie di reato che legittimano la condanna a morte. Invero, benché in assenza di una revisione formale, se non di tipo abolizionista quantomeno di carattere emendativo-contenitivo, altri paesi ne limitano di fatto l'applicazione.
La Russia, ultima parte-contraente del Consiglio d'Europa a prevederla, non la applica in virtù di una formale moratoria. In Europa, dunque, la concreta applicazione dell'antico supplizio resta confinata in Bielorussia.

Tutti gli stati-membri UE hanno poi da tempo abolito la pena capitale, considerandola incompatibile con la tutela dei diritti fondamentali e, in primis, di quello alla vita, ritenuto inviolabile. All'argomento della garanzia dei diritti si aggiunge inoltre una dirimente considerazione di tipo pratico, centrata sulla non-deterrenza, e già lucidamente rilevata dal Beccaria nel suo celebre Dei delitti e delle pene.
Nonostante queste convincenti argomentazioni, peraltro rafforzate dal rischio dell'irrimediabile errore, poiché non si può escludere che venga giustiziato un innocente, in ampie regioni del globo si continua a sostenere l'istanza retenzionista. Il riferimento non è solo a regimi autoritari e a democrazie incerte, ma agli Stati Uniti e al Giappone, i cui governi restano persuasi che la pena di morte debba essere l'equa risposta a condotte criminali connotate da un forte disvalore sociale. Invero, in questi ordinamenti, neppure totalmente abbandonata è l'idea general-preventiva (riferita alla comunità), che si salda con quella special-preventiva (riferita al condannato), l'unica difficilmente contestabile, almeno sul piano pratico e salvo errore giudiziario, ma ovviamente inconciliabile con la finalità rieducativa della pena, finalizzata al rinserimento sociale del condannato.

Più scontata la presenza della pena di morte nell'area medio-orientale e nell'Africa settentrionale, dove i sistemi giuridici, permeati dalla sharia, comunemente ammettono punizioni di carattere corporale fino a quella capitale. Come, pure, non sorprende il ricorso alla pena di morte nei sistemi autoritari o comunque non pienamente democratici, in cui le esecuzioni diventano strumento di repressione del dissenso politico. Anzi, non mancano casi in cui le ragioni di natura politica si saldano con quelle di ordine confessionale.
Orbene, in via di sintesi, si deve constatare che la pena di morte è stata, de iure o de facto, abolita in più dei due terzi dei paesi. Negli ordinamenti retenzionisti, ormai meno di una sessantina, il numero delle condanne a morte effettivamente eseguite resta basso (salvo poche eccezioni; ad esempio, si stima che la Cina abbia giustiziato 1.200 persone nel primo semestre di quest'anno, numero in linea con le 2.400 esecuzioni del 2015).
In un'ottica ampia, non si può non rilevare che il trend abolizionista sia prevalente rispetto a quello retenzionista, chiaramente recessivo. In una logica di avanzamento per piccoli passi, l'auspicio resta quello di una progressiva esposizione di questa residua minoranza di paesi alle istanze democratiche, curvate sulla protezione e promozione dei diritti dell'uomo, quindi incompatibili, tanto sul piano logico quanto su quello giuridico, con il ricorso alla pena capitale.