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L'Unesco difende la diversità culturale. Ma la sua definizione non piace agli americani

, di Gianluca Rubagotti - dottore di ricerca in diritto internazionale dell'economia
Gli aspetti salienti dell'accordo multilaterale e il perché dell'opposizione degli Stati Uniti

L'Unesco si è recentemente impegnata per l'adozione di uno strumento giuridico internazionale a tutela della cosiddetta diversità culturale. Adottata il 20 ottobre 2005, la convenzione sulla protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali è stata in poco tempo ratificata da diversi stati, ed è quindi entrata formalmente in vigore il 18 marzo 2007.

Quali sono gli aspetti più significativi di tale accordo multilaterale, sottoscritto da 75 stati più la Comunità europea?

In primis appare necessario capire esattamente qual è l'oggetto di protezione, e le definizioni fornite dalla convenzione non sono pienamente soddisfacenti. Essa infatti si applica "alle politiche e alle misure adottate dalle parti relativamente alla protezione e alla promozione della diversità delle espressioni culturali" (art. 3), laddove queste ultime vanno intese come "le espressioni che risultano dalla creatività degli individui, dei gruppi, e delle società e che hanno un contenuto culturale" (art. 4).

Come si può facilmente capire, l'ambito di applicazione appare piuttosto dilatato, permettendo agli stati di intervenire per proteggere la gran parte dei beni e servizi creati dall'intelligenza umana, nei campi del cinema, della moda, del design, dell'alimentazione.

Non stupisce quindi l'opposizione statunitense all'adozione di una convenzione dai confini così incerti, che garantisce agli stati parti un ampio potere di intervento, ben al di là dei beni e servizi culturali intesi in senso proprio.

L'entrata in vigore della convenzione Unesco pone quindi un problema di coordinamento con le norme dell'Organizzazione mondiale del commercio, che prevedono invece la liberalizzazione a livello multilaterale di beni e servizi.

Qualche esempio concreto: se uno stato, per esempio la Francia, decide di impedire la programmazione di canzoni e film stranieri oltre una certa percentuale, se prevede misure in favore di formaggi e vini locali, agendo quindi a tutela di beni e servizi domestici ritenuti portatori di un senso di identità che va oltre il mero valore economico, esso potrà in teoria invocare a giustificazione delle proprie misure interne le norme della convenzione Unesco.

Se queste stesse misure, verosimilmente in contrasto con gli obblighi Omc, colpiscono beni e servizi di un paese, quale gli Usa, che non ha accettato di vincolarsi alla convenzione Unesco, troverà tuttavia applicazione la norma di diritto internazionale generale in virtù della quale uno stato non può essere tenuto al rispetto di norme pattizie cui non abbia espressamente prestato il proprio consenso.

Se dunque la convenzione Unesco sulla diversità culturale vuole porsi come baluardo contro il rischio che gli stati economicamente più potenti impongano al resto del mondo non solamente il proprio modello di sviluppo economico, ma anche gli schemi e le strutture di integrazione civile a fondamento della società, sarà necessario che essa si affermi come strumento sostenuto e condiviso dalla maggior parte dei membri della comunità internazionale.