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L’inflazione, la Fed e le elezioni negli Stati Uniti

, di Franco Bruni
Per la maggior parte degli elettori, al momento del voto, conterà di più il fatto che rispetto a quattro anni fa i prezzi si sono alzati molto e non che hanno rallentato la crescita

Gli ultimi dati mostrano che, negli Stati Uniti, la velocità di crescita dei prezzi, che dalla metà del 2021 era cresciuta fino a superare il 9% annuo, è ora molto scesa, approssimandosi all’obiettivo del 2%. La banca centrale statunitense, la Fed, aveva cominciato a combattere l’inflazione in ritardo, scambiandola per un fenomeno che si sarebbe rapidamente autocorretto. Aveva anche sottovalutato il contributo che lei stessa aveva dato al fenomeno, con periodi troppo lunghi di tassi troppo bassi e liquidità troppo abbondante. 

I tassi Fed contro l’inflazione

Nella primavera del 2022 ha però cominciato a correggere la rotta, alzare i tassi e stringere la liquidità. Ha continuato a farlo, con crescente intensità e determinazione, fino ad agosto 2023, quando l’inflazione era riscesa sotto il 4%. Ha poi voluto mantenere la stretta ancora per un anno, cominciando a ridurre i tassi quando aveva raggiunto il 2,5%. 

La restrizione antiinflazionistica aveva superato la semplice normalizzazione di una politica troppo a lungo espansiva e ha dovuto resistere a dissensi, per quanto limitati, interni alla stessa banca centrale e a critiche più forti in parti del mondo politico e degli operatori finanziari. Ha potuto farlo anche perché, diversamente da quanto molti temevano, la stretta monetaria ha fermato i prezzi senza nuocere all’occupazione e permettendo al Pil di mantenere un invidiabile ritmo di crescita reale. 

Non solo: anche i mercati finanziari hanno reagito bene a una manovra monetaria violenta, che poteva essere destabilizzante ma che ha messo in difficoltà solo gli intermediari più imprudenti. I rendimenti delle obbligazioni a lungo termine sono cresciuti normalmente e senza strappi eccessivi e la loro differenza dai rendimenti a breve, dopo essere diventata negativa, è rientrata nella normalità di un mercato che si attende sostanziale prevalenza di stabilità. 

I prezzi delle azioni, che avrebbero potuto reagire male al forte aumento del costo del denaro, hanno continuato a crescere: da quando è iniziata la stretta della Fed l’indice S&P 500, ad esempio, è passato in modo quasi monotono da 4000 a 5700. Ciò ha accresciuto la credibilità delle autorità monetarie statunitensi, che si era indebolita dopo molti anni di obiettivi mancati e in seguito all’imprevista fiammata dei prezzi. La quale era seguita a vari tipi di shock reali ma anche a un lungo periodo di politiche ultra-espansive, sospette di poca indipendenza e di favori alle borse, al governo e ai grandi debitori.   

Una Fed pro-Harris ? 

In che rapporto sta questo successo della Fed con le prospettive delle elezioni presidenziali? La domanda si può articolare in modi diversi. Ci si può chiedere, innanzitutto, se l’apparente vittoria sull’inflazione e l’avvio del ribasso dei tassi, favoriranno nelle urne il partito del presidente Biden. La domanda si è diffusa quando la Fed, dopo aver resistito a lungo a richieste di ribassi che giudicava prematuri, li ha abbassati di colpo di 50 punti, due volte la variazione normalmente attesa, proprio quando la competizione per la Casa Bianca si è accentuata. 

Il presidente Jerome Powell ha risposto in modo ovviamente drastico a chi avanzava sospetti di parzialità partitica e ha giustificato in vario modo la forza della mossa, anche col fatto che da tempo i tassi erano rimasti molto alti con l’inflazione in netto calo. Dobbiamo credergli: dopo aver battuto abbastanza rapidamente l’inflazione con una manovra acrobatica e impopolare, perdere nuovamente credibilità cedendo a parzialità partitiche sarebbe illogico. 

Oltretutto, il mandato di Powell, che ha tendenze Repubblicane ma è stato riconfermato dal presidente Joe Biden, scade nel 2026, non ha prospettive di terzo mandato e non teme certo che una Kamala Harris vincitrice lo sospenda anzitempo perché non ha abbassato abbastanza i tassi. Casomai potrebbe temere di esser licenziato da Donald Trump, proprio per aver celebrato, con il ribasso dei tassi, la vittoria sull’inflazione durante la campagna elettorale. 

Escludendo la partitizzazione delle decisioni della Fed, rimane la domanda se il suo successo con l’inflazione, senza grandi sacrifici di crescita e occupazione, favorirà i democratici. Alcuni certamente apprezzeranno l’assenza di significative interferenze di Biden nella dura manovra restrittiva e il vantaggio che ne viene all’economia, ma si tratterà di un elettorato limitato e più sofisticato della gran parte degli elettori. Per i quali conterà di più il fatto che i prezzi si sono alzati molto che non quello che hanno rallentato la crescita. 

Il grave episodio inflazionistico, anche se interrotto, ha lasciato il segno pesante di un costo della vita molto cresciuto e di costi dell’abitare proibitivi per molti strati sociali in diverse aree del Paese. L’occupazione è elevata ma spesso precaria e i salari, nonostante alcuni notevoli recuperi del potere d’acquisto durante la discesa dell’inflazione, bassi e diseguali. 

La distribuzione del reddito e della ricchezza molto diseguale e la povertà forte e diffusa. Sicurezza, atteggiamenti verso e istituzioni democratiche, migrazioni, rivalità con la Cina, sanità, guerra-o-pace in Medioriente e Ucraina: presumibilmente saranno questioni più importanti dell’inflazione e dei tassi di interesse nell’orientare i voti. 

È però certo che, chiunque sarà alla Casa Bianca, economia e finanza saranno importanti nel consenso politico dei prossimi anni. In particolare, fra i problemi che paiono sottovalutati nel dibattito pre-elettorale ma che finiranno per imporsi all’attenzione, ne indicherei due: il bilancio e il debito pubblico ed estero degli Usa e la fragilità dei comparti non bancari del sistema finanziario del Paese. 

Il ciclo economico statunitense è stato sostenuto con continuità da politiche fiscali molto espansive e i debiti delle pubbliche amministrazioni hanno raggiunto livelli record difficilmente rifinanziabili senza tornare all’inflazione e alla svalutazione e hanno anche contribuito all’aumento del debito estero la cui sostenibilità potrebbe venir minacciata da tendenze a diversificare dal dollaro la composizione valutaria di grandi portafogli finanziari internazionali. 

Quanto agli intermediari finanziari non bancari, fondi di investimento e società finanziarie di vario tipo, la loro regolamentazione è inadeguata e attende da tempo che i rischi di crisi di liquidità e di insolvenza vengano limitati e gestiti con più prudenza e severità, evitando panici e contagi, anche internazionali, che potrebbero riprodurre situazioni analoghe a quelle della grave “crisi Lehman” di tre lustri fa. L’impressione è che in campagna elettorale se ne parli troppo poco. 

FRANCO BRUNI

Bocconi University
Dipartimento di Economia

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