Le basi (deboli) di una guerra globale al terrore
Dalla stampa Usa trapela una spaccatura interna all'amministrazione Obama, divisa sulla spinosa questione dei limiti da osservare nella war on terror. Sarebbe infatti in corso un duro confronto sulla portata geografica del conflitto: Jeh C. Johnson, general counsel del Dipartimento della difesa, ha dichiarato che gli Stati Uniti potrebbero allargare il loro raggio di azione nelle operazioni di targeting, ossia nelle azioni militari tese all'individuazione, finalizzata all'eliminazione fisica, dei sospetti terroristi, sul presupposto che i gruppi affiliati ad Al Qaeda e i loro militanti devono considerarsi nemici degli americani e, quindi, obiettivi militarmente legittimi in qualunque momento e ovunque si trovino.
Questa posizione non pare completamente aderente a quella esplicitata da Harold H. Koh, legal adviser del Dipartimento di stato, il quale, benché abbia ribadito la convinzione che la war on terror non possa ritenersi confinata al teatro di guerra strettamente inteso, parrebbe più sensibile agli umori degli alleati europei e propenso a una maggiore considerazione delle regole del diritto internazionale, quantomeno al loro rispetto formale. Lo sforzo di Koh si traduce, in termini giuridici, nel richiamo alle ragioni della legittima difesa: secondo il legal adviser, gli Usa possono legittimamente uccidere il nemico in Afghanistan e in Pakistan (nelle regioni di confine con il territorio afghano) e, fuori dal perimetro di guerra, possono uccidere il presunto nemico in nome del sacro diritto alla legittima difesa, solennemente garantito a tutti gli Stati dalla Carta delle Nazioni Unite. La differenza tra le due posizioni non è di poco conto, almeno sul piano teorico. Seguendo l'argomentazione di Koh, fuori dal campo di battaglia gli Usa possono uccidere solo quei presunti terroristi che rappresentano una grave e immediata minaccia per gli States (e/o per i loro interessi all'estero). Se invece prevalesse la linea politica di Johnson, gli Usa non avrebbero bisogno di una ragione specifica per giustificare l'uccisione del presunto terrorista, basterebbe sostenerne la membership, cioè la militanza nelle file del nemico. Anzi, diventerebbe doveroso agire nel caso in cui i presunti nemici si trovassero nel territorio di paesi senza capacità militare o volontà politica di annientarli. Fino ad oggi è prevalsa, almeno sul piano teorico, la posizione di Koh: per spiegare al mondo le azioni militari statunitensi in paesi non coinvolti in alcun conflitto (come Somalia e Yemen), l'amministrazione Obama ha, di regola, preferito la linea argomentativa più prudente e ha invocato la legittima difesa per il targeting fuori dal c.d. hot battlefield. Insomma, gli Usa possono uccidere dove vogliono ora perché in guerra ora per self-defence. Sul piano pratico, nessuna differenza sostanziale con la posizione più radicale, quella di Johnson. L'argomentazione di Koh giustifica l'eliminazione fisica in termini più 'digeribili' per il comune sentire. Ma a ben vedere, per rendere il target killing legittimo e 'coprirlo' con l'idea della legittima difesa bisogna forzare sia la nozione di minaccia sia quella di 'immediata': è difficile sostenere che un individuo nel deserto o a casa propria (in villaggi sconosciuti di paesi remoti) sia un pericolo immediato. Anche l'eccezionalità delle azioni di legittima difesa si scontra con la regolarità della policy del targeting, che per ammissione di Leon Panetta, direttore della Cia, pare essere il solo 'game in town'. Basti dire che, nel primo anno della presidenza Obama, il numero di 'drone-lanched missile strikes' è stato di gran lunga superiore a quello di operazioni simili autorizzate nell'ultimo triennio della presidenza Bush; per non parlare di Osama Bin Laden, ucciso in un paese alleato senza nessuna preventiva autorizzazione né internazionale né del governo sovrano. In futuro, sarà difficile spiegare alla Russia o ad altri paesi che certe azioni non si compiono, perché in chiara violazione del principio di sovranità, del diritto alla vita, alla difesa o al giusto processo.