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L’abatino Galiani: un economista divertente

, di Giovanni Iudica - ordinario di diritto civile e direttore della Scuola di giurisprudenza della Bocconi
La ricchezza è il frutto del lavoro, non la moneta. Con quest'idea, l'autore de "Della moneta, libri cinque" precorre i tempi e delinea una teoria dell'equilibrio economico 15 anni prima di Adam Smith

Ferdinando Galiani, un apripista tra i grandi studiosi dell'economia, fu un enfant prodige e un grande burlone. A sedici anni entrò all'Accademia degli Emuli, grazie a due portentosi saggi, uno dei quali, parecchio originale, sullo stato delle monete all'epoca della guerra di Troia. Aveva appena compiuto vent'anni quando pubblicò un lavoro magistrale: Della moneta, Libri cinque. Il successo fu immediato e universale. L'idea di fondo era semplice: la ricchezza è l'economia reale, e cioè i prodotti della terra, le manifatture, i frutti del lavoro e dell'intelligenza, non la moneta. La moneta, come il sangue, è il fluido attraverso il quale scorre la ricchezza vera. L'obbiettivo dei mercantilisti di accumulare la massima quantità di moneta è dunque un non senso, paragonabile alla folle idea di aumentare al massimo la pressione del sangue nelle vene. E che dire della svalutazione? Secondo Galiani si tratterebbe di una operazione puramente nominale, come se il re di Prussia, "desideroso di avere soldati d'alta statura, stabilisse che il palmo non si compone più di dodici ma di sole nove dita". Trattando della moneta, otto anni prima di Quesnay e quindici anni prima di Adam Smith, Galiani abbozza una vera e propria teoria dell'equilibrio economico, e cioè di un ordine non determinato dalla natura, ma dalle decisioni degli uomini. Galiani venne invitato a Roma, Firenze, Milano ove strinse rapporti con la migliore intelligenza illuministica.

Tornato a Napoli, Galiani pubblicò un trattato Sulla perfetta conservazione del grano, che anticipava i futuri Dialoghi sui grani. Questo saggio gli aprì le porte della diplomazia: fu incaricato dal primo ministro Bernardo Tanucci di accompagnare come segretario l'ambasciatore napoletano a Parigi. Galiani accettò, ma aveva paura di essere oggetto di scherno, nella più sfarzosa Corte d'Europa, a causa della sua piccola statura! L'ambasciatore, José Maria Enrique de Baeza y Vizantel, fu costretto a tornare improvvisamente in Spagna e così le sorti diplomatiche del regno di Napoli furono affidate al giovane segretario. La scena della presentazione al re è rimasta famosa: "Maestà", disse rispettosamente Galiani, "Voi vedete in me non l'incaricato d'affari dell'Ambasciata di Napoli, ma un suo piccolo campione. Lui seguirà".

Galiani divenne famoso a Parigi e nel mondo per la sua scienza e per il suo humour (oltre che per il suo debole per madame d'Epinay). Diceva di sé: "Io non sono per niente. Sono soltanto perché non si sragioni. Non si deve ragionare come fanno gli 'economisti' per teoremi astratti: perché si rischia che il teorema vada bene e il problema assai male".

La sua fortuna ebbe inizio da una burla: pochi giorni dopo la morte del boia napoletano Domenico Jannaccone, apparve un'ode dalle parole sfacciatamente irridenti a firma dell'accademico don Antonio Sergio. La firma era apocrifa e tutti risero del boia e dell'azzimato accademico. Questi se la prese a male e ricorse al primo ministro affinché il responsabile della beffa fosse severamente punito. Uno dei due responsabili era il giovane abate Ferdinando Galiani. Fu condannato a dodici giorni di esercizi spirituali e poi avvenne il grande balzo: il primo ministro assunse l'abate nella sua segreteria. Anche il papa Benedetto XIV si divertì per la beffa e si fece inviare l'ode incriminata. Galiani gliela inviò insieme ad alcune pietre del Vesuvio, con l'invito impertinente a trasformarle in pani.