La violenza contro le donne nei conflitti armati
Il femminismo giuridico ci ha insegnato a riflettere sul modo in cui concettualizziamo il soggetto politico, cioè su come pensiamo all'individuo come eroe della sfera pubblica. Chi è il soggetto ideale che rivendica diritti e prende decisioni politiche? La riflessione filosofica sulle forme di organizzazione del politico è avvenuta attraverso l'identificazione del soggetto maschile universale, che costruisce la nazione, lo Stato e i suoi meccanismi di funzionamento. Le donne, invece, sono state a lungo "depoliticizzate" o considerate sostanzialmente irrilevanti nei luoghi e nei momenti di esercizio della sovranità decisionale. I processi di democratizzazione e l'estensione del suffragio hanno riportato le donne nella comunità politica, anche se progressivamente e non senza l'aiuto di meccanismi correttivi della rappresentanza, come le cosiddette "quote di genere". Tuttavia, la costituzione delle donne come soggetti politici, cioè come figure che occupano, contribuiscono, utilizzano, ottengono visibilità e riconoscimento nella società è un fenomeno ancora in corso. La crudele repressione delle proteste politiche guidate dalle donne in Iran è l'ultimo esempio di questa lotta.
Non è difficile capire, quindi, come questa depoliticizzazione pesi particolarmente durante i conflitti armati, come dimostra la realtà storica e giuridica delle donne vittime di violenza sessuale in tempo di guerra. I casi giudiziari di violenza sessuale durante i conflitti armati hanno reso evidente che lo stupro costituisce un'arma di guerra, utilizzata per degradare e subordinare le donne, punire quelle politicamente attive e, attraverso i loro corpi, umiliare il nemico.
Negli ultimi anni, il diritto internazionale dei diritti umani ha riconosciuto il diritto al risarcimento per le donne che hanno subito violenza sessuale durante un conflitto armato. Nel 2019, il Comitato contro la tortura, che vigila sul rispetto dell'omonima Convenzione delle Nazioni Unite, ha concluso che la Bosnia-Erzegovina ha violato gli articoli 1 (divieto di tortura) e 14 (diritto al risarcimento del danno) della Convenzione per non aver risarcito il danno biologico e morale della vittima di un episodio di violenza sessuale, da parte di un membro dell'esercito occupante, durante il conflitto nell'ex Jugoslavia. Il Comitato sostiene che lo stupro costituisce una forma di tortura e, nel particolare contesto della guerra, un episodio di discriminazione sulla base del genere, perché le donne vengono intenzionalmente identificate come vittime con il preciso intento di umiliarle e ridurre la loro sfera di autodeterminazione, compresa la determinazione politica. La decisione giunge a distanza di oltre vent'anni dai fatti contestati alla ricorrente e dopo che la Corte Costituzionale della Repubblica bosniaca aveva escluso la possibilità di risarcire il danno morale, biologico ed esistenziale dovuto alla prescrizione del reato.
Questa decisione riflette un dato di fatto: l'ancora modesta consapevolezza di alcune corti nazionali sull'esistenza di una dimensione di genere negli episodi di violenza che caratterizzano i conflitti armati. Il rischio è quello di considerare lo stupro come un effetto marginale e inevitabile delle ostilità e non come la manifestazione di un intento discriminatorio e oppressivo nei confronti delle donne. Il diritto internazionale dei diritti umani ha, da questo punto di vista, molto da fare.
Non c'è momento più opportuno del presente per riflettere sull'importanza di denunciare, perseguire e risarcire la violenza sessuale in tempo di guerra. Ce lo ricorda l'attuale conflitto in Ucraina. Le notizie di stupro sono ampiamente descritte dalla stampa internazionale. Già il 4 marzo 2022, la Relatrice speciale sulla violenza contro le donne ha rilasciato una dichiarazione sull'urgenza di creare meccanismi di protezione e inclusione delle donne come parte delle strategie di risposta alle crisi umanitarie. È giunto il momento di ripristinare la centralità delle donne nella sfera socio-politica.