La storia d'Italia e le multinazionali. Apertura tardiva
L'Italia multinazionale non è nata ieri, affonda le sue radici nei primi 40 anni dello scorso secolo con nomi come Fiat, Pirelli, Snia Viscosa, Montecatini, Olivetti, Cirio, Martini&Rossi. E se prima della Prima Guerra mondiale gli investimenti diretti esteri (ide) italiani erano presenti soprattutto in America Latina (Argentina in particolare), nel periodo fra le due guerre si sono rivolti prevalentemente in Francia, Germania e Usa. Il secondo dopoguerra col miracolo economico ha visto prima il boom delle esportazioni e, dalla metà degli anni '80, l'accelerarsi degli ide, anche da parte di imprese di media dimensione. Il rapporto fra stock (flussi cumulati al netto dei disinvestimenti) di ide e pil è cresciuto da poco più del 5% nel 1990 al 28% del 2009. Ma non va trascurato il fatto che nello stesso anno questo indice toccava il 41% in Germania, 44% in Spagna, 65% in Francia, 76% in Uk: l'Italia inseguiva in ritardo un obiettivo di crescita internazionale comune a tutti i paesi avanzati.
Vi sono almeno cinque ragioni di questo ritardo nell'emergere di una Italia multinazionale e non solo fortemente esportatrice: a) una quota alta di micro e piccole imprese, poco capaci di sopportare i costi di entrata sui mercati esteri come investitori; b) una struttura dei vantaggi comparati dominata da settori tradizionali di consumo e della meccanica specializzata, le cui imprese sono per loro natura meno "costrette" a diventare multinazionali rispetto a quelle che operano nei settori a elevata intensità di scala e ad alta tecnologia come chimica, elettronica, autoveicoli; c) proprio nei settori di scala e a maggiore dinamismo tecnologico, un peso elevato (fino alle privatizzazioni degli anni '90) di imprese a partecipazione statale che (con l'eccezione di Eni-Agip) erano rivolte a investire in Italia, nel Mezzogiorno in particolare; d) un contesto macroeconomico degli anni '70 e '80 poco favorevole agli ide (inflazione, lira debole e volatile, restrizioni ai movimenti internazionali di capitali, scarsità di credito a medio-lungo termine); e) il noto dualismo nello sviluppo, per cui imprese del Nord hanno trovato per anni manodopera abbondante, affidabile e a basso costo nel Mezzogiorno, con forti agevolazioni finanziarie statali.L'ultima ricognizione del rapporto annuale "Italia multinazionale", basato sulla banca dati Reprint (Ice-Politecnico di Milano) registra all'inizio del 2009 ben 6.426 imprese italiane investitrici, con 18.692 affiliate all'estero sotto pieno controllo, di cui più di metà (9.605) di natura commerciale-distributiva, oltre 4.000 legate ad attività estrattive-energia-costruzioni e solo 5.052 unità manifatturiere, che però pesano per circa il 70% degli addetti all'estero (più di un milione nelle sole affiliate sotto pieno controllo). Negli ultimi 20 anni sono scomparsi o sono stati assorbiti una decina di gruppi medio-grandi come Stet-Italtel, IRI-Ilva, Bonomi-Saffa, CIR-Valeo, Cragnotti Partners: circa un terzo dei 27 gruppi multinazionali con almeno 500 addetti censiti da Reprint alla fine del 1991.Nella storia dei pochi grandi gruppi multinazionali, tra cui gli unici sopravvissuti di antica data (Fiat, Pirelli), colpiscono i tentativi falliti di fusioni-alleanze, a causa di errori strategici e di interferenze della politica. Si pensi a Fiat con Citroen (1970-73), Ford (1984-85), GM (2000-05) così come a Pirelli con Michelin (anni '60) o Olivetti con Underwood (1960-68) e AT&T (1984-89). Il testimone dell'Italia multinazionale è passato ormai a numerosi esponenti del "quarto capitalismo": imprese familiar-manageriali che puntano a eccellere nella loro nicchia di specializzazione, con intensa attività innovativa, diversificazione di prodotti e servizi, basso indebitamento rispetto al capitale proprio. Si va da grandi gruppi (Ferrero, Luxottica, Riva, Italcementi) a gruppi con fatturato anche inferiore a 2 miliardi di euro, come Mapei e Mossi&Ghisolfi (chimica delle specialità), Brembo-Coesia-IMA-Carraro (meccanica), Recordati-Zambon-Bracco-Dompé (farmaceutica) o Zegna-Benetton-Miroglio (abbigliamento).