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Opinioni Pubblica amministrazione

La p.a. è un luogo per giovani?

, di Davide Ripamonti
Considerato spesso un piano B, il settore pubblico ha imboccato la strada di una lunga riforma che vuole renderlo più moderno e attrattivo. A che punto siamo? Ne parliamo in questa intervista con Raffaella Saporito

Trecentocinquantamila assunzioni entro il 2025 ha annunciato il ministro per la Pubblica amministrazione Paolo Zangrillo. Da gennaio sono stati lanciati 13.274 bandi che hanno messo in palio 288.558 posti, cioè 2,7 volte (+176%) quelli aperti nel 2023. Da Bankitalia all’Inail, dal ministero della Giustizia a quello della Difesa, moltissime sono le opportunità. E soprattutto è stata raggiunta la cifra record di due milioni di candidature, presentate da una platea sconfinata di persone che mette il posto pubblico fra le proprie opzioni professionali. Almeno stando alle cifre riportate da alcuni quotidiani. Ma cosa c’è dietro questo boom di domande? Il ritorno del mito del posto fisso per tutelarsi dall’incertezza dell’avvenire, una pubblica amministrazione più moderna ed efficiente capace, finalmente, di premiare il merito e quindi di aprire interessanti e appaganti prospettive di carriera o, invece, il desiderio di contribuire alla “cosa” pubblica per costruire una società e un mondo migliori? E, soprattutto, questi numeri sono reali e veramente così stupefacenti? Ne parliamo in questa intervista con Raffaella Saporito, Associate Professor of Practice of Government, Health and Not for Profit presso SDA Bocconi School of Management.

Veniamo ai numeri. I due milioni di candidati sono reali, gonfiati o, più semplicemente, c’è stato qualche errore di interpretazione?

Diciamo innanzitutto che da qualche tempo abbiamo uno strumento, il portale InPA, che non solo raccoglie tutti i concorsi, ma permette di avere un’unica porta di accesso per candidarsi. È un enorme passo avanti se pensiamo che nel nostro paese non sappiamo bene neanche quante amministrazioni pubbliche abbiamo, visto che esiste più di una tassonomia. Detto questo, la cifra in questione dovrebbe rappresentare il numero totale delle candidature possibili, e in quel dato ci saranno persone che si sono candidate a più concorsi e non 2 milioni di “teste uniche”. Verosimilmente tanti di loro sono già dipendenti pubblici, in cerca di un impiego in altro ente (magari più vicino o meglio remunerato) o di accedere ai ruoli dirigenziali. Il tema importante però è un altro.

Ovvero?

Per prima cosa che ci sono tante opportunità di impiego nel settore pubblico come non vi sono mai state in precedenza. E questo è un grande elemento di novità degli ultimi cinque anni. In secondo luogo, alcuni dati che abbiamo raccolto in amministrazioni pubbliche locali ci dicono che a candidarsi non sono tanto i giovani, ma una fascia di persone, 30-40enni, con una decina d’anni di esperienza lavorativa.

E come mai? Ma, soprattutto, che caratteristiche hanno questi candidati?

Come sempre, hanno storie diverse. Ma spesso sono in fuga dal mondo delle professioni autonome e dalla mancanza di tutele per queste categorie, attratti da condizioni di lavoro più protette, ma anche dalla possibilità di poter lavorare per l’interesse pubblico.

Il lavoro pubblico considerato quindi come una sorta di ripiego visto che quello privato non ha dato le soddisfazioni sperate. È corretto?

Più che come un piano B, la percezione è che il lavoro pubblico sia visto come un piano della maturità, o comunque come qualcosa che si prende in considerazione non all’inizio della vita professionale, quando si hanno idee molto vaghe e aspirazioni forse un po’ astratte. In particolare in alcune tipologie di professioni tecniche, come architetti e ingegneri, che sono sempre state le più difficili da reclutare per le amministrazioni pubbliche. Un tema però nuovo, emerso soprattutto post 2020 e che può cambiare le regole del gioco, è quello della conciliazione tra vita lavorativa e sfera privata, che finora aveva riguardato soprattutto le donne e che adesso invece diventa un valore trasversale rispetto alle dinamiche di genere. 

Un tema di welfare soprattutto…

Certamente. Il dipendente pubblico ha un orario di lavoro certo e inferiore a quello del privato, con tutele che chi lavora con partita Iva ignora. Penso ad esempio alle tutele in caso di maternità o di malattia. Ritorniamo quindi al tema del lavoro pubblico che offre anche quella sicurezza che forse si impara ad apprezzare più avanti nella vita lavorativa.

Per attrarre giovani qualificati entrando in competizione con le aziende private questo però non basta. A che punto siamo con la riforma della pubblica amministrazione?

Ogni governo ha portato avanti un pezzetto di riforma. Ma nel tempo sono cambiati gli obiettivi: negli anni successivi alla crisi finanziaria del 2008, le riforme erano volte a comprimere il numero di addetti e, in generare, a ridurre i costi del personale. E abbiamo trascurato il tema dell’attrattività. Solo in tempi più recenti, con la riapertura dei concorsi dal 2017 in avanti, si è posto il tema. E quel racconto di dieci anni fa di una PA da far dimagrire, perché inefficiente e costosa, non ha giovato alla sua immagine. Quelle riforme hanno avuto un impatto, per quanto con esiti talvolta contraddittori. Per attrarre i giovani però non basta. Intanto, occorre forse dire che la pubblica amministrazione non esiste come entità unica: è un concetto astratto e respingente. Esistono tanti enti con funzioni e funzionamenti diversi, ma sono poco noti. Inoltre, dobbiamo prima capire che giovani vogliamo attrarre e quali sono le cose che per loro sono importanti.

Qualcosa però sarà già emerso. Può darci qualche indicazione?

Innanzitutto il tema del benessere. I giovani danno grande importanza al fatto di lavorare in un ambiente dove le relazioni siano distese e non ci siano situazioni organizzative tossiche. Ma la ricerca ci dà altre due importanti indicazioni sulle caratteristiche e i desideri professionali di questi giovani. La prima è che vogliono lavorare in un contesto dove possano veramente applicare le proprie competenze, quello che hanno studiato all’università e non essere impiegati in attività a basso valore aggiunto. L’altra, molto importante secondo me, vogliono poter vedere l'impatto di quello che generano, vogliono fare delle cose che abbiano un potere trasformativo sulla società. Penso a tutto il tema dell'ambiente, per esempio. Sono due cose che molti enti pubblici possono offrire, ma manca del tutto un racconto chiaro che le renda note. 

C’è però anche il tema delle carriere, che non può essere trascurato.

È un aspetto estremamente rilevante se si vogliono attrarre giovani qualificati. La buona notizia è che oggi non mancano gli strumenti contrattuali per ridisegnarli. Quella cattiva è che non sempre sono adottate strategie chiare e coerenti nei singoli enti, quindi il panorama è molto vario a riguardo. 

Una delle ragioni che spinge a lavorare nel pubblico, oltre a quelle che abbiamo già visto, è  il poter contribuire in modo diretto alla vita pubblica, che sia la città, la regione, il Paese. È ancora così?

Assolutamente. È sempre stata una motivazione rilevante, direi decisiva. Però da alcune nostre esperienze abbiamo notato come i giovani abbiano idee un po’ astratte rispetto a quali sono le postazioni da cui si incide di più. Ad esempio, se si conoscono un po’ alcuni ministeri, soprattutto i più blasonati (penso al MEF o agli Esteri) poco si conosce del lavoro negli enti locali, dove il contatto col territorio è diretto. È lavorando nelle città che misuri più efficacemente l’impatto di quello che fai. Eppure, l’ente locale non ha per i ragazzi lo stesso valore aspirazionale del grande ministero.

Nel suo ruolo di docente universitaria ha a che fare con molti studenti. Esiste in loro il desiderio di lavorare nel settore pubblico?

Lavorare per l’interesse pubblico è per loro molto stimolante. Molto spesso però considerano in questo senso prima le grandi organizzazioni internazionali (ONU o Europa) e non sempre vedono nella pubblica amministrazione italiana un luogo dove poter lavorare secondo le loro aspirazioni. Un altro sbocco interessante è quello della consulenza che lavora per l’amministrazione pubblica o delle imprese pubbliche, organizzazioni ibride, di proprietà pubblica, ma con regole del diritto privato. Osservo anche un altro fenomeno interessante da monitorare che riguarda la fascia degli executive: cresce il numero di manager del privato che hanno voglia di misurarsi con le sfide del pubblico, di cui sposano anche la missione. Questo è un mercato di competenze che potrebbe crescere, se regolato bene e in modo trasparente. 

RAFFAELLA SAPORITO

Bocconi University
Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche