La next big thing e' stata gia' inventata
"Bisogna allungare l'orizzonte di pianificazione, utilizzando anche l'immaginazione se necessario, per mettersi nella condizione di cogliere i vantaggi che certamente ci saranno, anche se oggi possiamo solo intuirli". Marco Patuano, presidente del Gruppo A2A e alumnus Bocconi, racconta così il difficile esercizio di tracciare oggi un piano strategico decennale per un'azienda che opera in un settore in ebollizione come quello dell'energia. Nel documento, presentato a inizio anno, la più grande multiutility italiana (che preferisce per sé la definizione di "Life Company") ha stanziato 18 miliardi di investimenti, buona parte dei quali destinati allo sviluppo della produzione da fonti rinnovabili, a ulteriore dimostrazione che per le aziende la direzione di sviluppo è quella.
Lei che ha lavorato a lungo nelle telecomunicazioni sarà però abituato a guardare lungo e soprattutto a fidarsi molto del progresso tecnologico
Sì, in effetti quando oggi sento parlare di alcune tecnologie nei settori in cui opera A2A, come ad esempio l'idrogeno o il biometano, mi vengono in mente gli albori di internet: tecnologie che esistono da anni, delle quali siamo tutti convinti che saranno una "Next Big Thing", ma allo stesso tempo su cui siamo consapevoli che manca ancora qualcosa per far accadere il tutto. In questo momento c'è una distonia sempre maggiore tra lo stato dell'arte e gli scenari verso i quali saremo ineludibilmente condotti da alcuni macrotrend e da fenomeni sociali, eventi geopolitici, sviluppi tecnologici.
Come gruppo A2A avete recentemente acquisito un parco eolico importante: è quella la fonte rinnovabile sulla quale investire al momento? Quali altre tecnologie le sembrano più promettenti?
Fotovoltaico ed eolico sono tecnologie ben più che promettenti, sono una realtà. Se parliamo di tecnologie promettenti, guardando ben più lontano, diciamo oltre il 2050, penso che le speranze maggiori arrivino dalla fusione dell'atomo. Se, invece, ampliamo il discorso dalle sole energie rinnovabili al mondo del Net Neutral, allora direi che tecnologie di assoluto interesse si trovano nel mondo della Carbon Capture, intesa non tanto come lo stoccaggio della Co2 nel sottosuolo ma il suo trattamento e il suo sfruttamento.
In Italia la realizzazione di nuovi impianti, siano eolici o termovalorizzatori, o ancor più eventuali centrali nucleari, è ancora una mission quasi impossibile. L'emergenza sempre più evidente cambierà le cose secondo lei?
La transizione energetica è per forza di cose un processo di "learning the hard way": si impara dalle emergenze quotidiane, anche se per molte persone queste non sono mai abbastanza evidenti. Il punto è che agire sotto la tirannia dell'emergenza fa sì che si tenda a privilegiare l'efficacia e che, per "risolvere i problemi", ci si orienti a centralizzare le decisioni. Impianti come quelli citati, però, hanno impatti molto visibili sui territori che li ospitano e non si possono realizzare prescindendo dal dialogo con gli stakeholder locali. Non è un caso che intorno a quasi tutte le iniziative cresca un atteggiamento "Nimby", cioè "non nel mio territorio". Io stesso, che sono piemontese, amo contemplare i filari delle viti nella mia campagna, non è ovvio che sarei contento se ci costruissero in mezzo delle pale eoliche. Quando si parla di queste tecnologie, le persone hanno molte domande, spesso sono spaventate perché non ne conoscono fino in fondo i risvolti. Ma se ci mettiamo nei panni di chi deve allocare capitali per effettuare gli investimenti, nessuna impresa può accettare tempi così lunghi per realizzare un'infrastruttura. Dobbiamo trovare quindi un equilibrio, nuove forme di scambio tra imprese e territorio e abbandonare la mentalità di guardare sempre prima a ciò che si perde rispetto a quanto si può ottenere.
Le perplessità nascono anche dal fatto che ancora pochi hanno potuto toccare con mano i vantaggi di una transizione alle energie rinnovabili, almeno tra i privati
Non è del tutto vero. Se entro 10 anni tutti guideremo un'auto elettrica sarà perché è più conveniente. Io ne utilizzo abitualmente già una per la città. Perché? Il conto è semplice: con un litro di carburante si percorrono, nel migliore dei casi, 15 km, mentre con il suo equivalente in potenza elettrica, ovvero 10 kWh, un'auto elettrica ne fa 80, 100, magari anche 120 perché il motore elettrico è molto più efficiente di quello endotermico, che disperde più energia producendo calore. È una convenienza molto tangibile e che porta dei risultati non solo all'ambiente ma anche all'utilizzatore. Questo è un cambiamento assai rilevante perché dei circa 1300 terawattora di energia primaria che utilizza l'Italia (mi riferisco alla somma di energia elettrica, gas e derivati del petrolio), una quota molto importante deriva proprio dai trasporti.
In che modo, secondo lei, la crescita delle rinnovabili cambierà la geopolitica mondiale e quale sarà il ruolo dell'Europa in questa transizione?
Se dividiamo il pianeta in macro blocchi, notiamo che c'è un'unica area in equilibrio tra usi e consumi energetici, ed è il Nord-America. Loro hanno un mercato energivoro ma anche uranio, gas, petrolio, sole e vento. Ce la possono fare da soli insomma. Russia e Medio Oriente sono esportatori netti, Cina e sud est asiatico, importatori netti. L'Europa è in deficit strutturale perché non ha fonti di energia autoctone: non ha petrolio, non ha gas, non ha uranio. Come europei dobbiamo chiederci come possiamo restare in equilibrio per il tempo che ci separa dalla diffusione dei processi di fusione dell'atomo che ci renderanno finalmente liberi dall'importazione di energia. Se, come abbiamo detto, questo avverrà oltre il 2050, non resta dunque che trovare un modo per farci meno male possibile per i prossimi 30-50 anni. La questione è in larga misura politica, perché molta della tecnologia necessaria già esiste. Un caso di scuola dice che se costruissimo nel deserto del Sahara un quadrato di circa 100 km di lato con specchi solari questo potrebbe garantire tutta l'energia per l'Europa. Non significa che si può fare davvero ma, appunto, che la tecnologia l'abbiamo e che per trovare soluzioni comuni dobbiamo diventare davvero un'unione europea.
Nato ad Alessandria, 58 anni, Marco Patuano si è laureato in Economia aziendale in Bocconi prima di perfezionarsi negli Usa e di esordire professionalmente nelle Telecomunicazioni seguendo, dal 1995, la nascita e la crescita di TIM fino a diventare, nel 2011, a.d. di Telecom. "Dopo quell'esperienza mi sono ricordato di avere una specializzazione in finanza e ho cominciato a occuparmi di holding finanziarie" scherza il presidente del Gruppo A2A ricordando i trascorsi di a.d. in Edizione srl, la fondazione di MP Invest o il ruolo di senior advisor per Nomura. "La Bocconi che ho conosciuto io era innanzitutto una scuola di metodo e per questo ha costituito un insegnamento validissimo per affrontare prima gli studi e poi la professione di manager. Ricordo che, mentre la maggior parte delle scuole di economia era concentrata sui temi di organizzazione, qui si cominciava a ragionare sul pensiero strategico, un bel vantaggio sulla concorrenza. Con il tempo ho davvero apprezzato la qualità dei maestri che avevamo e il senso civico che dimostravano professionisti di quel calibro nel mettersi a insegnare alle nuove generazioni. Insegnare io oggi? Non credo di essere portato. E poi, con cinque figli, ho già la mia academy personale a casa".