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La battaglia di Azincourt

, di Giovanni Iudica - ordinario di diritto civile e direttore della Scuola di giurisprudenza della Bocconi
1415. La storica vittoria di Enrico V, re d'Inghilterra, contro i francesi

Nell'ottobre del 1415, si consumò una delle pagine più sconcertanti della sanguinosa Guerra dei Cento anni. Il re d'Inghilterra scese in Francia per tre buoni motivi: per la conquista del porto di Harfleur (un avamposto non meno importante dal punto di vista strategico e psicologico di quello di Calais); per ottenere l'adempimento della promessa, sino ad allora non rispettata, di un matrimonio, accompagnato da una dote di 1.800 scudi d'oro, con Catherine, figlia del folle re di Francia Carlo VI; infine, per riaffermare il proprio diritto (come fecero tutti i re inglesi dall'apertura della successione di Philippe le Bel in poi) sulla corona di Francia. I due eserciti si schierarono contro l'altro, a un tiro di freccia, in una piana nei pressi del villaggio di Azincourt. Gli inglesi potevano contare su circa 13.000 uomini: un gruppo di formidabili arcieri era schierato in prima linea, al centro si era sistemato Enrico V con la sua guardia di nobili a cavallo e in coda era allineata la fanteria. L'esercito francese era semplicemente spettacolare. Schierava non meno di 50.000 uomini. Al centro era disposta la fanteria pesante e a entrambi i lati era collocata una poderosa cavalleria. In quell'esercito era raccolto il fior fiore della nobiltà di Francia. I fanti e i cavalieri francesi splendevano nelle loro armature d'acciaio con raffinate cesellature dai bordi d'oro; gli scudi multicolori e gli elmi dai variopinti pennacchi erano un autentico, terribile spettacolo, come solo la guerra riesce a produrre. Con tale disparità di forze il destino degli inglesi era segnato. Pioveva a dirotto. Enrico V, nel timore di venire massacrato, inviò ai francesi un'ambasciata, con la ragionevole proposta di rinunciare alle sue pretese sulla corona di Francia, di rinunciare a Harfleur, ma di desiderare però, anche come pegno di pacificazione, la mano di Catherine, accontentandosi di una dote di 800 scudi. In un via vai di ambasciatori, i francesi, con la vittoria in pugno, respinsero sdegnosamente le proposte di Enrico e si dichiararono disposti a lasciare all'Inghilterra tutt'al più il porto di Calais, ma niente altro. Sotto una pioggia torrenziale si sentì un grido, nelle file inglesi: ne streeke (now strike)!A quell'ordine, come un sol uomo, gli arcieri fecero partire numerose, micidiali scariche di frecce. La fanteria francese, riparandosi con gli scudi dal diluvio di dardi, decise di partire all'attacco per sfondare il centro nemico. Sennonché la recente semina e le piogge della notte e del mattino avevano rammollito il terreno: i fanti, stretti e impacciati nelle loro pesanti armature, erano immersi nel fango sino al ginocchio e, non riuscendo ad avanzare di un passo, erano diventati un facile bersaglio per gli arcieri inglesi. Fu allora dato l'ordine alla cavalleria di entrare in azione: una manovra semplice e rapida, a tenaglia, avrebbe dovuto schiacciare ai fianchi l'esercito invasore e chiudere definitivamente la partita. Su dieci cavalieri che partivano all'attacco solo uno riusciva a stento a raggiungere le schiere nemiche, per esservi poi massacrato. Gli altri si dibattevano nella più totale confusione: soldati barcollanti nel fango, cavalli imbizzarriti che non riuscivano a liberare le zampe. Cavalli e cavalieri sprofondarono gli uni sugli altri nella melma. I soldati che non vennero uccisi sul campo, o che non riuscirono a darsi alla fuga, furono tutti catturati. Poi Enrico V, non sapendo come gestire la grande massa dei prigionieri, diede ordine di massacrare anche quelli.