Impero cinese, meglio capirlo che cambiarlo
Economia e numeri non bastano né a capire la Cina né, tantomeno, a farla cambiare. "Per comprendere a fondo una civiltà plurimillenaria non ci si può occupare solo delle cose, di un homo oeconomicus che prende decisioni istantanee, prescindendo dal tempo, dallo spazio, dalla cultura di appartenenza e dalle relazioni che intrattiene con i suoi simili", sostiene Marco Cattini, storico della Bocconi, titolare del corso di civiltà comparate, "ma ci si deve occupare anche delle relazioni sociali e culturali delle persone e delle reti strutturate di senso che le contraddistinguono". Così, è inutile proiettare i propri principi, convinzioni e modi di fare su altre civiltà.
Marco Cattini |
"Classifichiamo ancora i cinesi come comunisti e non li comprenderemo finché non riconosceremo che si considerano, semplicemente, un impero", afferma Cattini. Quella dello status imperiale è una consapevolezza preconscia, una convinzione che diventa prassi ogni volta che i cinesi devono prendere una decisione. "La Cina è un impero da 4.200 anni, con una breve parentesi maoista che però si è chiusa, o comunque ha sostanzialmente virato, di nuovo, verso tratti imperiali, già con Deng".
L'Occidente, secondo lo schema utilizzato da Cattini, è individualista e razionale, trascura il passato e non si preoccupa della continuità delle relazioni. Prevale, in un certo modo, una logica predatoria. I cinesi, invece, sono olistici, ragionano nella logica del vantaggio condiviso. "È questa, per esempio", prosegue Cattini, "la mentalità che rende difficoltoso far comprendere davvero ai cinesi il ruolo del brevetto. Quando c'è un'innovazione, essa deve essere resa disponibile a tutti, perché ognuno ne tragga vantaggio secondo il proprio status; prima di tutto chi ha più dignità, quelli che un tempo erano definiti mandarini, poi tutti gli altri".
Chi ha più dignità non va, inoltre, mai contraddetto e una tale concezione rende impraticabile, se non per concessione a forti pressione esterne, un concetto come quello democratico, che ci vorrebbe tutti uguali.
Le differenze non sono, però, solo queste. Cattini contrappone, solo per fare qualche esempio, il valore della tradizione, proprio della civiltà cinese, a quello della modernità dell'Occidente, la formalità delle comunicazioni cinesi all'informalità europea e americana, la policronia cinese alla monocronia occidentale, l'armonia con la natura perseguita dagli orientali al controllo sulla natura ricercato da noi, la cooperazione cinese alla competizione americana, fino a un sistema economico cinese basato sulle relazioni a uno occidentale fondato sui ruoli. "Un intrico di relazioni unisce il segretario del partito al più umile dei cinesi e così, quando in Occidente ci stupiamo di vedere arricchirsi smisuratamente alcuni uomini d'affari funzionari di un partito comunista non dobbiamo dimenticare che, in Cina, sono visti come dei mandarini, assurti alla loro posizione per meriti culturali, che fanno partecipare della loro ricchezza, in varia misura, l'intera collettività".
In definitiva, su questi presupposti è risibile anche il solo pensare di poter cambiare la mentalità dei cinesi, come loro non cambieranno la nostra. Il caso delle Olimpiadi è emblematico del sentimento cinese nei riguardi degli occidentali, ritiene Cattini: "La classe dirigente le vede come un prova di abilità, che dovrà convincere il resto del mondo della superiorità cinese. C'è la volontà di fare qualcosa che altri hanno già fatto, ma meglio di chiunque altro. Per i cinesi siamo noi quelli da convincere, non il contrario!".