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Il declino post bellico della Lancia

, di Franco Amatori
Come la mancata riogranizzazione tecnico-produttiva ha mandato in crisi la casa automobilistica

Una fase di forte crescita del mercato è una grande opportunità per un'azienda. È quanto accadde alle imprese italiane negli anni gloriosi 1950-70, quando il reddito nazionale cresceva in media del 6% annuo. Nel settore automobilistico, si passò dalle 100.000 auto del 1950 a quasi un milione e mezzo 20 anni dopo. Tuttavia l'aumento della domanda costituisce anche una sfida di non poco conto: sono necessari cambiamenti degli assetti interni dal punto di vista organizzativo, tecnico produttivo e della governance. La Lancia ad esempio aveva trovato la nicchia giusta nel mercato automobilistico, dove c'era posto per una sola impresa che puntasse ai grandi numeri (la Fiat, che già alla fine degli anni Venti controllava il 90% del settore) ed un altro attore che puntasse invece a una strategia di differenziazione, ovvero, presenza in tutti i segmenti, ma con maggiori qualità e costo. Prima della guerra, la Lancia era appunto questa impresa sotto la guida dell'oculato e prudente Vincenzo Lancia. Lancia si era conquistato 15.000 clienti affezionati. Metteva sul mercato un modello e quando raggiungeva quel tetto produttivo, passava a un altro. I ritmi lenti del mercato automobilistico italiano gli consentivano una tranquilla gestione personal-familiare. Lancia però muore improvvisamente nel 1937 lasciando l'impresa priva di una guida adeguata dal punto di vista imprenditoriale. Assumono il comando la moglie Adele e nel 1948 il figlio Gianni che allora aveva appena 24 anni. È un momento di grande cambiamento: uno dei bisogni primari degli italiani nel primo dopoguerra è un'incontenibile voglia di movimento che solo l'automobile può consentire. Anche per chi produce auto di lusso, è necessario passare dalle migliaia alle decine di migliaia. L'autofinanziamento o il patrimonio familiare non bastano più alle necessità degli investimenti. Lancia potrebbe raccogliere risorse finanziarie in borsa, ma un fatto del genere è lontanissimo dalla sua cultura. Si presenta l'opportunità di un finanziamento consentito dai fondi del piano Marshall che vengono erogati dall'Imi. «Roma nein» (non si va a Roma) risponde la famiglia Lancia in piemontese ovvero, le decisioni relative al prestito si prendono a Roma, ma in caso favorevole si rischia di portare padroni in casa propria. Gianni Lancia segue quindi un'altra strada. Nel 1950 un progettista di grande talento, Vittorio Jano, gli mette su strada uno straordinario modello, l'Aurelia. L'Aurelia può trasformarsi in una vettura da competizione sino a pervenire con adeguate metamorfosi alla Formula Uno. Ma la Lancia non attua una conseguente trasformazione tecnico-organizzativa: Da Borgo San Paolo escono camion, utilitarie, gran turismo, vetture da competizione in una confusione che finisce per paralizzare lo stabilimento stesso. La Lancia non regge la concorrenza dell'Alfa Romeo guidata da Giuseppe Luraghi che, senza risentire dei problemi del controllo familiare essendo a partecipazione statale, si impegna in investimenti adeguati e mira alla giusta fascia di mercato: le vetture veloci di media cilindrata. La carriera imprenditoriale di Gianni Lancia termina una domenica di maggio del 1955, quando Alberto Ascari durante il Gran Premio di Montecarlo prende una curva troppo lunga e finisce in acqua. Gianni Lancia è abilissimo a vendere l'azienda all'industriale Carlo Pesenti per una decina di miliardi, ma non lascia a questi quella trasformazione dell'impresa che sarebbe stata necessaria, ovvero il passaggio a una strategia di focalizzazione che grazie all'Aurelia avrebbe fatto della Lancia una versione italiana della Porsche. Pesenti trovò la situazione gravemente compromessa e, per quanto si impegnasse in importanti investimenti, come ad esempio il nuovo stabilimento di Chivasso, non poté fare a meno di cedere alla Fiat per una lira nel 1969 una indebitatissima azienda.