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I diritti dei crowdworker

, di Antonio Aloisi e Valerio De Stefano - rispettivamente PhD student e teaching fellow in diritto del lavoro
Le nuove piattaforme della gig economy tra vantaggi per i consumatori e tutela dei lavoratori

Negli Usa tutti gli occhi sono puntati sulla gig economy, l'economia dei lavoretti: l'attenzione degli esperti è catalizzata dai temi lavoristici connessi al funzionamento di piattaforme e app come Uber, Taskrabbit e Amazon Mechanical Turk. La formula segreta del popolare servizio di ridesharing è nota: cittadini nei panni di autisti. Sono dozzine le infrastrutture digitali che replicano questo modello. Taskrabbit è l'Uber delle commissioni manuali: pitturare casa, sbrigare faccende domestiche o fare le pulizie. Amazon Mechanical Turk è invece la più nota piattaforma di crowdwork. Che cosa hanno in comune queste applicazioni per smartphone? Permettono di accedere a una forza lavoro a chiamata che può essere mobilizzata e demobilizzata ad altissima velocità, per via di una flessibilità elevatissima e di costi di transazione molto bassi: un'occasione ghiotta per imprese e consumatori. Anche per i lavoratori i vantaggi sono notevoli: si accede facilmente a opportunità di lavoro prima più difficili da scovare. C'è chi arrotonda il proprio stipendio, chi ci guadagna qualcosa mentre studia o non ha la possibilità di lavorare full-time, chi invece fa dei compensi per queste micro-task la fonte principale di reddito.
Non mancano tuttavia criticità e polemiche. Oltre alle questioni regolamentari, quali la necessità di possedere particolari licenze per fornire alcuni servizi, si pone il problema di che tipo di tutele fornire ai lavoratori. I crowdworker sono normalmente inquadrati come lavoratori autonomi, senza diritto a particolari tutele o protezioni nei confronti del datore di lavoro. In alcuni sistemi di welfare, tale classificazione comporta il mancato accesso a ogni copertura assicurativa sanitaria o previdenziale. Negli Stati Uniti, in tanti si sono rivolti ai tribunali o agli organi amministrativi per chiedere il riconoscimento di diritti riservati ai lavoratori, come il salario minimo, l'indennità di disoccupazione, il rimborso delle spese. Alcune di queste cause sono già state risolte con transazioni, liquidate con importi che superano i 500mila dollari (è il caso di una recente class-action statunitense contro una piattaforma di crowdwork).
Come evitare che le prestazioni online siano sfruttate su scala globale in violazione delle leggi contro il lavoro forzato o minorile? Che ne sarà del rispetto della libertà di associazione? Come reagire al rischio di discriminazione basata sulle caratteristiche dei profili o sugli indirizzi ip? Esiste un modo per rendere trasparente il monitoraggio costante che i business operano sui lavoratori, anche sulla base dei rating degli utenti? Come evitare comportamenti opportunistici di clienti che si rifiutano di pagare pur trattenendo il risultato del lavoro, eventualità consentita da alcune piattaforme? Al netto della ventata di entusiasmo che queste infrastrutture hanno sollevato, si potrebbe chiosare che i connotati apparentemente nuovi mascherano tendenze già diffuse nel secolo scorso, cui si dovrebbe reagire ricorrendo ai principi che si ergono a tutela del lavoro. Non esistono risposte scontate ai tanti dubbi avanzati, e il dibattito, soprattutto a livello internazionale, è più che mai vivace.