Flexicurity in Italia? No, grazie
Lavoro flessibile, libertà di licenziare e dosi massicce di ammortizzatori sociali: la flexicurity sembra uno straordinario evergreen del dibattito sul mercato del lavoro. In effetti, la ricetta pare perfetta: le imprese modulano la manodopera secondo le esigenze del just in time, ma i lavoratori non devono preoccuparsi di perdere il lavoro, perché lo stato è pronto a finanziare la loro disoccupazione. Un sistema di welfare dinamico ed efficiente, dove si direbbe che tutti ci guadagnano. Eppure, i sistemi di flexicurity reale sono un'assoluta rarità nel panorama mondiale dei paesi industrializzati. Come mai?
Una prima risposta può venire dal particolare humus strutturale di cui essa ha bisogno per potersi sviluppare. Il richiamo alla madre di tutti i sistemi di flexicurity, la Danimarca, non giustifica troppo ottimismo sulla sua esportabilità. Se, infatti, la struttura socio-economica danese si caratterizza per un sistema fiscale trasparente e rispettato, omogeneità sociale e culturale, sindacato unito e partecipativo e un apparato burocratico snello ed efficiente, l'adozione della flexicurity nel contesto italiano appare problematica.
Naturalmente, oltre agli ostacoli strutturali, la flexicurity deve fare i conti con la sua difficile sostenibilità finanziaria. Per dare un'idea delle dimensioni dello sforzo, si consideri che in Danimarca gli oneri sociali incidono per circa il 41% della retribuzione lorda, contro il 27% circa dell'Italia, mentre il solo onere tributario è in Danimarca di circa il 30%, contro il 18% dell'Italia.
In realtà, esiste una ragione più profonda che giustifica la resistenza dei grandi paesi europei ad aprirsi alla logica della volatilità del lavoro compensata dalla garanzia pubblica del salario. Questa ragione risiede nel rifiuto di assimilare il lavoro alle altre merci che si scambiano nei diversi mercati del mondo. Infatti, la logica in base alla quale ciò che importa non è la stabilità del lavoro, quanto piuttosto quella del salario, risponde all'astrattizzazione del valore economico del lavoro, ma non alla considerazione di esso come strumento imprescindibile per la realizzazione del percorso di sviluppo personale, sociale ed economico dell'individuo. Se, infatti, non v'è dubbio che il lavoro abbia una fondamentale dimensione economica, è anche vero che quest'ultima non esaurisce la causa del contratto di lavoro. Allo stesso modo, affermare che a un certo lavoro corrisponde un determinato valore economico, non significa che quello stesso valore sia l'equivalente funzionale di un determinato lavoro. Mentre il salario esprime sempre un bene fungibile, altrettanto non può dirsi per il lavoro, che è sempre espressione unica e irripetibile della attività del singolo.
Considerare il lavoro perfettamente sostituibile da un salario o, come accade nella flexicurity, da un sussidio, esprime una visione miope non soltanto del lavoro, ma anche dell'economia. Per affrontare l'attuale crisi finanziaria ed economica, si è diffusa l'opinione che lo stato debba soccorrere le imprese in difficoltà anche facendosi carico delle passività insanabili che le asfissiano. Ebbene, l'operazione sembra ora doversi estendere anche ai lavoratori: quando l'impresa entra in crisi, la merce lavoro diventa una sorta di asset tossico, da cui l'impresa deve essere liberata con l'intervento dello stato.
È questo il sovvertimento del pilastro fondante del diritto del lavoro eurocontinentale che, imponendo precisi limiti alla facoltà di licenziare, assegna all'impresa un'insostituibile funzione di garante della stabilità del lavoro e dell'economia.
Perciò, se attuato su larga scala, il profilo caratteristico della flexicurity dello scambio tra lavoro e sussidio non può che produrre un effetto destabilizzante del sistema economico. Se si è giunti a comprendere che non può esserci finanza senza industria, è ora necessario capire che non può esserci industria senza lavoro.