Fatta la legge, scritto il compendio
Nel 1866, tra i titoli degli editori milanesi della Biblioteca utile, al prezzo di una lira, esce il Compendio popolare del nuovo Codice civile del Regno d'Italia: sono passati quattro anni dall'unificazione e pochi mesi dall'entrata in vigore del Codice Pisanelli.
Il curatore dell'agile manuale, con marcato afflato patriottico, nell'introduzione sottolinea l'alto profilo giuridico e morale dell'opera di codificazione del diritto, soprattutto di quella italiana del 1865, appena realizzata, e dei suoi principi informatori, di cui ciascun cittadino deve avere cognizione. Il codice civile italiano è presentato come il grande edificio «sotto cui vengono concordi ad assidersi la varie famiglie della Penisola sacrificando ciascuna tradizioni, consuetudini, privilegi speciali, per intendere allo svolgimento della loro vita economica e civile, sotto il regime di una legislazione unica, nazionale». A dir la verità, a sfogliarle oggi, quelle pagine suonano un poco ridondanti e antiquate: «Quando le leggi civili, che regolano i diritti e doveri degli uomini, sono raccolte in un tutto ordinato, e sotto tal forma sancite dal legislatore, prendono il nome di Codice civile; e i codici si elevano nella storia giuridica come monumenti del grado di civiltà e sapienza del popolo da cui emanarono [...] Il nostro Codice civile è figlio della grande rivoluzione italiana del secolo XIX [...] a ciascuno di noi importa conoscere quale debba essere, secondo la nuova legislazione, il nostro modo di agire negli affari ed interessi quotidiani, quali siano i nostri diritti e doveri nella varie relazioni della vita [...]». Eppure, nonostante l'enfasi retorica, queste parole colgono nel segno: a completamento del processo di unificazione, si era deciso di scrivere un codice di diritto privato, che servisse a cementare sotto un'unica legge il nuovo regno e i suoi abitanti, con l'ambizione di contribuire, così, alla costruzione della società civile italiana. Dopo qualche esitazione iniziale, si era scelto a modello il Code civil. Innanzitutto, quasi tutta la penisola già lo aveva conosciuto direttamente, tra il 1806 e la caduta di Napoleone; inoltre, nel Risorgimento, questo testo, ispirato ai valori di libertà e uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, era diventato addirittura un simbolo. Ancora, durante la Restaurazione, vari stati preunitari, dal Piemonte sabaudo al Regno delle Due Sicilie, avevano scelto la via della codificazione proprio sulle orme dell'esperienza transalpina, contribuendo a dare un'uniformità giuridica al paese, laddove l'unità politica era ancora lontana. Dunque, il primo codice civile del Regno d'Italia (il secondo è quello ancora vigente, del 1942), per la struttura e i contenuti sceglie di seguire l'esempio francese del 1804 ed è diviso in tre libri, dedicati al diritto delle persone e della famiglia; ai beni e alla proprietà; ai modi di acquisto della proprietà (cioè obbligazioni, contratti, successioni). Si respinge tuttavia il divorzio, contrario alla tradizione italiana, pur introducendo il matrimonio civile, e, alla comunione dei beni tra i coniugi, si preferisce il regime di separazione, con la dote. Tratto originale sono invece le Preleggi, dove Pasquale Stanislao Mancini scrive le norme di diritto internazionale privato, scegliendo come guida il criterio della nazionalità, cioè dando prevalenza alla legge nazionale di ciascun soggetto. E proprio come accade in Francia, all'inizio dell'Ottocento, quando si vuole far conoscere il Code ai cittadini, attraverso opere di volgarizzazione, cui non è estraneo un fine pedagogico, così anche in Italia, dopo l'Unificazione, fioriscono prontuari e guide al diritto per tutti, che si inseriscono in una consolidata linea di opere di tal sorta, quale appunto questo Compendio popolare, di cui, tra l'altro, una copia è conservata ancora oggi in Biblioteca Bocconi.