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Dirigismo e vincoli non portano redistribuzione

, di Giuseppe Berta - professore associato di Storia contemporanea
Redditi: le retribuzioni sono in sofferenza, ma i politici devono chiarire come aumentare i salari

Una domanda di redistribuzione della ricchezza sembra oggi attraversare le società occidentali, dopo che la globalizzazione negli ultimi dieci-quindici anni ha accentuato il ventaglio delle diseguaglianze. Il mondo sviluppato, che aveva visto crescere i livelli di sicurezza e di garanzia nei decenni Sessanta e Settanta, ha assistito all'ampliarsi delle disparità nei redditi, con un conseguente acutizzarsi del senso di rischio e di instabilità. Accanto ai gruppi sociali che hanno conseguito un miglioramento della loro posizione grazie alle opportunità che hanno offerto le nuove professioni, si è registrato l'allarme di coloro che temono di non reggere il passo dei mutamenti, fino a veder pregiudicato il loro tenore di vita.

Se per molti aspetti siamo di fronte a una tendenza generalizzata, i cui sintomi si avvertono un po' ovunque, è vero tuttavia che essa prende forme e dimensioni diverse nei vari casi nazionali. Così, per esempio, nel nostro paese la Banca d'Italia ha di recente portato l'attenzione sul diverso andamento che ha caratterizzato i redditi da lavoro autonomo rispetto a quelli da lavoro dipendente: i primi hanno realizzato un significativo incremento, mentre i secondi hanno ristagnato.

In una simile cornice, è naturale che salga dalla società una domanda di misure di rilancio del potere d'acquisto dei salari, che spesso rinviano anche a politiche di redistribuzione della ricchezza.

A questa richiesta di ricostituzione del valore delle retribuzioni è però difficilissimo rispondere con soluzioni coerenti e complessive. Quella più immediata consiste nell'ipotizzare una riduzione delle aliquote del prelievo fiscale. A beneficiarne sarebbero però tutti i redditi e dunque non ne deriverebbe alcuna perequazione.

Nei programmi politici si evoca spesso la possibilità di un aumento dei salari, senza però pronunciarsi sul fatto se esso debba essere il frutto di un'aumentata produttività, destinata perciò a riflettersi positivamente sulle retribuzioni. O se debba piuttosto essere la risultante di un'opera di redistribuzione, tale da spostare in direzione del reddito fisso una quota della ricchezza.

Talvolta, l'impulso alla redistribuzione finisce coll'essere demandato ad altri strumenti di intervento, come per esempio l'ipotesi di un minimo retributivo per i lavori flessibili.

Ma ha davvero senso il progetto di assegnare un minimo garantito a un universo così eterogeneo come il mondo dei lavori flessibili e temporanei? Fissata la norma, le deroghe e le eccezioni sarebbero inevitabilmente così numerose da togliere efficacia al suo valore di principio. Ancora più arbitrario, poi, sarebbe l'intento di applicare il criterio del salario minimo all'area del "lavoro a progetto". Vi rientrano infatti tali e tante funzioni e mansioni che ogni normativa troppo rigida finirebbe col comportare più oneri che vantaggi per questo tipo di lavoratori. Se si vuole davvero offrire tutela a queste attività, occorre prestare attenzione a quanto è specifico della loro condizione: la leva delle agevolazioni fiscali potrebbe rivelarsi ancora la più idonea a promuovere il loro consolidamento sul piano professionale e di mercato.

L'Italia sta attraversando da tempo una vasta e delicata trasformazione delle sue relazioni economiche e di lavoro. Occorre essere molto vigili per evitare di introdurre elementi vincolistici e dirigistici che potrebbero bloccare la dinamica della mobilità sociale invece di sostenerla.