Competenza e motivazione. Nessuna delle due basta da sola per andare in missione
“Da qualche mese finalmente ho un armadio per i vestiti, una vita sociale senza restrizioni e non dormo più con la radio da campo nel letto. Però il mio fisico non riesce ad abituarsi al freddo umido di Bruxelles”. Non è difficile da credere, perché nel passato di Maria Sole Zattoni, HR Coordinator per Medici Senza Frontiere, c’è una sequenza ininterrotta di missioni che l’hanno portata in giro per il mondo per anni, dal Congo al Rwanda, dal Sudan allo Yemen, dall’India all’Iraq. “Ero in Iraq quando è scoppiata la pandemia. Con le chiusure imposte dal Covid-19 fare il mio lavoro era diventato ancora più complicato e ho approfittato della possibilità di tornare in Europa in una posizione più stanziale. Non è un passaggio semplice e, non avendo figli, non ero proprio in pole position, ma avevo le competenze per ricoprire il ruolo che serviva e questo ha prevalso”. Laureata in Diritto Internazionale in Bocconi nel 2012 e diplomata al Master in Management delle Imprese Sociali, Non Profit e Cooperative in SDA, la manager oggi si misura con un ruolo di coordinamento certamente meno adrenalinico rispetto all’azione sul campo, ma non per questo meno strategico. “Sono inserita in un team che aiuta le missioni e i recruiter a decidere quali risorse partono e dove mandarle. Mi manca la vita sul campo perché la prossimità con il beneficiario rende questo lavoro impagabile, però il senso di responsabilità resta intatto; ho visto che cosa può accadere se si lascia partire una persona inadatta o impreparata. A implementare una buona attività si impiegano molte energie, tempo e risorse, per rovinarle può bastare una decisione sbagliata”.
La vita in missione spaventa e attrae al tempo stesso anche le nuove generazioni e alimenta un interesse crescente per le professioni nell’ambito della cooperazione internazionale. “C’è tanta curiosità per questo settore e non voglio scoraggiare nessuno, ma invito i giovani a considerare bene alcuni aspetti”, precisa Zattoni. “Innanzitutto, una volta imboccata la strada del settore non profit, non è facile cambiare, perché il mondo profit non sempre riconosce le professionalità maturate nel terzo settore. L’ho provato anch’io sulla mia pelle. C’è un pregiudizio piuttosto radicato: si pensa che nelle ong lavorino volontari o figure con basse competenze ed è complicato spiegare che invece molti aspetti, dall’organizzazione alle tecnologie, dall’amministrazione alla gestione delle risorse, non sono diversi da quelli di un’azienda”. Si viaggia però molto, e non solo per brevi periodi. “E sempre più spesso nell’altro emisfero perché tutte le grandi organizzazioni stanno spostando i centri decisionali più vicini ai territori in cui operano”, sottolinea Zattoni. “Questo aspetto chiama in causa un tema non secondario: la capacità di trovare un equilibrio con la propria vita personale e i propri affetti. Nei compound in missione si vive in comunità, non ci si sente mai soli, anzi, piuttosto non esiste intimità né tempo per sé stessi. Però è difficile costruire legami duraturi. E prima o poi, con l’età, arriva il momento in cui si avverte un vuoto, o anche la necessità di avvicinarsi ai genitori che invecchiano mentre noi siamo lontani”.
Allo stesso modo, occorre curare il balance tra competenze e motivazioni, perché nessuno dei due elementi basta da solo. “Non si va in missione per salvarsi o per fuggire”, sintetizza la manager. “La motivazione e i valori sono importanti per superare le difficoltà, soprattutto all’inizio, quando le prospettive di carriera sembrano poche e il confronto con i coetanei che lavorano in aziende e studi legali è frustrante. Ma quello nelle grandi ong è un lavoro che richiede molta professionalità e che come tale deve essere approcciato e analizzato, anche per capire che cosa va bene e che cosa non funziona e si deve migliorare. L’ideologia sul lungo periodo non solo non basta, ma non consente di vedere le cose come stanno realmente”.