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Come costruirsi un'identita' cross culturale

, di Vincenzo Perrone - Full professor di organizzazione aziendale, Universita' Bocconi
Per essere dei leader globali non bastano competenze e professionalita': bisogna sviluppare la propria intelligenza culturale e imparare a superare percezione e stereotipi

Volenti o nolenti la globalizzazione sta cambiando la vita nostra e delle imprese nelle quali lavoriamo. E non si tratta soltanto delle multinazionali: basta pensare a quello che attende autisti dell'Atm, vigili urbani, baristi e taxisti ora che l'onda attesa dei milioni di visitatori di Expo sta invadendo le vie della città di Milano e di tutta l'Italia.
Il valore di questo incontro e la possibilità che non si trasformi in uno scontro dipendono dal nostro livello di intelligenza culturale. Gli esperti l'hanno infatti isolata e hanno sviluppato un quoziente di intelligenza culturale, il Cq.
Il fatto che si studi e si misuri l'intelligenza culturale è indice di almeno due cose: che ne occorre molta per affrontare nel modo giusto la complessità delle relazioni con culture diverse dalla nostra e che riuscire a farlo bene ci rende persone migliori. Più intelligenti appunto. È un processo lungo e graduale, quanto non privo di difficoltà.
Si deve imparare a navigare tra due scogli entrambi pericolosi. Da un lato quello dell'universalismo, ovvero l'idea che le differenze culturali non siano affatto rilevanti, che sia in atto da tempo un fenomeno di convergenza di modi e costumi culturali generato dalla globalizzazione e che le variabili culturali contino molto meno di professione, reddito o livello di istruzione. Le classi dominanti e lo strato più ricco della società, quella che lo studioso Michael Lind ha definito la overclass, sono storicamente universalistiche e i loro membri fanno gruppo e si riconoscono come simili ben al di là delle origini nazionali di nascita. Questa posizione universalistica, apparentemente positiva, nasconde un germe pericoloso: quello del relativismo culturale, che può diventare l'alibi per tollerare abitudini "culturali" come l'infibulazione, le spose bambine o la legge del taglione, che in culture come la nostra sono invece decisamente, e giustamente, condannate.

➜ quella sottile linea tra noi e voi
Sono invece i ceti meno abbienti e meno colti che, all'estremo opposto, coltivano di solito il più stretto etnocentrismo, opponendo all'universalismo il particolarismo dei propri usi e costumi. Ovviamente ritenuti divergenti, migliori e superiori a quelli di chiunque altro. Perché anche in questo atteggiamento, accanto a cose positive come il senso di identità e il legame con la tradizione, si nascondono le radici insidiose di tanti drammi. Distinguere tra culture e gruppi di appartenenza significa infatti sempre anche tracciare una linea che separa «noi» da «loro». Chi si sente insicuro, minacciato nella propria identità magari proprio da una di quelle crisi devastanti che la globalizzazione sembra portare con sé e oltraggiato dall'aumento straordinario della diseguaglianza che pare esserne il volto feroce, si aggrappa alla propria identità nazionale, alla patria, allo stato, alla razza, in cerca di salvezza e contro un nemico senza volto che opprime. Con il disprezzo per il diverso da noi, con la parodia e la caricatura dello stereotipo dell'altra cultura, si combattono guerre. Dovrebbe far riflettere, in questo senso, il fatto che la parola Ucraina voglia dire «sul confine». Distinguere senza comprendere, mortifica e uccide.
Dalla storia al management: abbiamo commesso qualche errore, in questo senso, anche con la formazione manageriale. Una ventina d'anni fa, si aveva sicuro successo nelle aule dei corsi di cross cultural management, mostrando un video intitolato Going international: managing the overseas assignment. La storia era semplice: un manager statunitense (la parodia del manager nordamericano) doveva negoziare con una serie di potenziali clienti di diverse culture: il messicano, in ritardo all'appuntamento e desideroso di parlare di tutto tranne che di lavoro; l'arabo o il gruppo di giapponesi, rigidamente inchiodati al proprio ordine gerarchico interno, basato sull'anzianità. Con ogni rappresentante di ogni cultura (ovvero con lo stereotipo di costui) l'americano protagonista compiva ogni possibile errore di relazione, creando sconcerto e irritazione. Il messaggio era chiaro e rassicurante: imparate a riconoscere e rispettare le differenze culturali e avrete successo. Era lo stesso messaggio che anche le teorie disponibili sostenevano e sostengono.

➜ dalla percezione all'intelligenza
culturale
Che si tratti del noto modello di Geert Hofstede, o di quello del progetto Globe, degli studi di Fons Trompenaars o della lista elaborata dal sociologo israeliano Shalom Schwartz dei valori culturali isolati nel World Values project, l'idea è quella di avere delle dimensioni (ad esempio quanto le persone in una cultura rispettano o no le distanze di potere, o tendono più all'individualismo o al collettivismo, etc.) in base alle quali distinguere una cultura da un'altra. Ma un modo per distinguere è anche un modo per definire e incasellare, spesso in uno stereotipo, nascondendo il fatto provato che la varianza di comportamento che potremo osservare nel singolo individuo difficilmente potrà mai essere predetta, per più di una percentuale contenuta, dal suo essere italiano, messicano o giapponese. Ma etichettare semplifica e consola, e forse per questo i partecipanti a quei corsi ridevano e si immedesimavano. Salvo forse uscire rinforzati nei propri stereotipi. Ci fossimo fermati lì avremmo quindi fatto più danni che altro. Ma per fortuna la ricerca e la didattica sono andati avanti, oltre la semplice percezione delle differenze.
Quanto percepito va infatti elaborato. L'intelligenza culturale è fatta di esperienza diretta e di quanto impariamo circa norme, pratiche e convenzioni altrui, immergendoci davvero in un'altra cultura (dimensione cognitiva). È fatta della volontà di investire la nostra attenzione e la nostra energia per apprendere come funzionare in situazioni di differenze culturali (dimensione motivazionale). È fatta della capacità di interagire, verbalmente e non, in modo appropriato (dimensione comportamentale). E infine prevede una dimensione meta-cognitiva: quando arriviamo a sapere come assumere identità culturali multiple, riflettendo su quanto ciascuna contiene di utile e di vero e giocandocele nell'incontro con gli altri. Consci come dovremmo essere che la cultura è sempre il modo con il quale un gruppo umano ha imparato a rispondere alle sfide della vita e dell'ambiente, modificando l'uno e l'altra.
In questo modo forse impareremo un giorno a vedere anche in una linea di confine, un segmento che congiunge mondi.