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Come ci mancano le storie d'impresa

, di Paolo Morosetti - docente di economia aziendale e gestione delle imprese alla Bocconi
Non può attendersi grande entusiasmo giovanile un paese nel quale i capitani d'industria più visibili sono anziani e agiscono soprattutto in settori protetti

È appurato che l'effetto emulazione costituisca un fattore motivazionale del comportamento in genere e di quello economico in particolare. L'esempio rappresentato dalle persone in posizioni di particolare visibilità, in quanto a stile di leadership, entusiasmo con il quale portano a termine un mandato, capacità di gestire un gruppo, qualità dei risultati conseguiti, ruolo sociale ottenuto,influisce sulla collettività e sul singolo che leggono e interpretano le gesta altrui per poi modificare il loro comportamento, più o meno coscientemente.

Le storie degli imprenditori costituiscono in questa prospettiva un fattore culturale che può favorire il fenomeno dell'imprenditorialità. Esempi di successo stimolano comportamenti emulativi innescando un circolo virtuoso. Tuttavia, se questa è la teoria, la lettura del contesto italiano lascia preoccupati.

Gli imprenditori che hanno visibilità mediatica costituiscono un gruppo con dei tratti abbastanza peculiari: un'età in genere avanzata, guidano imprese di media-grande dimensione con solide posizioni competitive, magari prevalentemente nel mercato domestico, appartengono frequentemente alle categoria dei "figli di" o in "attesa di", eredi attuali o futuri di un patrimonio imprenditoriale. Talvolta sono poi al comando di imprese che beneficiano di qualche vantaggio di scarso contenuto imprenditoriale, i loro business beneficiano di qualche regolamentazione o forma di protezione dalla libera competizione sul mercato domestico o internazionale.

Tutto questo comporta che le storie degli imprenditori alla guida di realtà dinamiche, innovative, internazionali ed operanti nei mercatia maggior prospettiva di crescita faticano a guadagnarsi l'attenzione e l'interesse dei media e della collettività.

Senza voler entrare in giudizi sulle condotte dei cosiddetti imprenditori mediatici, che peraltro contribuiscono oggi alla ricchezza del nostro paese, più intrigante è forse un'altra riflessione: questi esempi sono sufficienti a stimolare all'azione quei giovani interessati a fare nuova impresa? Ovvero a combinare un bisogno di mercato con una soluzione tecnologica, magari innovativa, che possa dar vita a una nuova struttura aziendale che cresca profittevolmente producendo in futuro ricchezza e benessere sociale?

Provate a chiedere ai giovani che escono dalle università di illustrare qualche esempio di imprenditore di successo in Italia e, con buona probabilità, le risposte vi stupiranno. Gli imprenditori generalmente indicati dalle giovani leve ricadono spesso in quel clichè appena tratteggiato. Un clichè che, a bene vedere, ha poco a che fare con il vero significato della parola imprenditore poiché è evocativo di tutt'altro genere di attore economico: soggetti che hanno quote di capitale di rischio in aziende, che svolgono prevalentemente ruoli di governo e di controllo, ma che poco hanno a che fare con il vero processo di innovazione imprenditoriale.

Lo snodo è quanto mai delicato: la parola imprenditore pare oggi evocare in molti un'immagine che non è delle più corrette, né riesce a stimolare un sano effetto emulativo nei giovani che potrebbero essere degli imprenditori di domani.

È un problema semantico, ma anche culturale e mediatico. Tenuto conto che l'Italia è ancora ricca di imprenditori, perché non escono allo scoperto? Perché non si impegnano con forza e responsabilmente anche a livello sociale? Perché non costituiscono un esempio virtuoso?

La cultura del nostro paese, dispiace osservarlo, sembra aver perso nel tempo il gusto e l'importanza del valore dell'imprenditorialità. La figura stessa dell'imprenditore sembra essere caduta un po' nell'oblio, quasi che il suo contributo al rinnovamento e alla crescita del nostro paese si sia esaurito o meno nobile che un tempo.

Si parla tanto e troppo di managerializzazione e finanziarizzazione del sistema industriale. La prima la si insegna diffusamente e la si esalta sulle pagine dei giornali, dove abbondano interviste e fuorvianti tabelline che riportano i compensi dei grandi manager, le loro stock option e i vari benefici indiretti che hanno conseguito. La seconda la si esalta quasi che il portatore di capitali di debito e le mille architetture concepite siano il fine e non il mezzo per creare ricchezza.

Degli imprenditori veri, quelli che innovano con continuità e che costituiscono nuove aziende, si sono perse le tracce. Ma la colpa è anche loro: poco presenti nel dibattito sociale, poco visibili, poco disposti ad esporsi, poco disponibili a partecipare a social network dove il valore comune è il fare e promuovere una cultura di impresa.

Forse un ribilanciamento dei valori sarebbe auspicabile, forse un cambiamento dei comportamenti di taluni altrettanto.