
Chi sale e chi scende nella geografia del lavoro
Le scelte strategiche di impresa in merito alla localizzazione delle attività produttive modificano visibilmente la geografia del lavoro. Il tema è tanto attuale quanto controverso: nell'opinione pubblica delle principali economie industrializzate è da tempo diffusa la percezione che le strategie di delocalizzazione produttiva e investimento estero delle imprese multinazionali abbiano contribuito alla riduzione dei posti di lavoro, soprattutto di tipo non specializzato e a carattere routinario. La ricerca accademica sul tema tende a non supportare questa visione. Studi recenti enfatizzano come la progressiva frammentazione geografica e funzionale della produzione, che ha portato le imprese a rilocalizzare le funzioni a basso valore aggiunto mantenendo nei paesi di origine quelle a più alto contenuto di conoscenza, abbia permesso di ottimizzare i processi produttivi, con il conseguente aumento degli investimenti e la creazione di nuovi posti di lavoro nei paesi di origine. A consuntivo il bilancio aggregato è quindi positivo, o al più non negativo, anche qualora si tenga in considerazione l'eterogeneità dell'effetto a livello individuale, tra lavoratori che svolgono mansioni di natura diversa.
Lo studio condotto dall'equipe di ricerca che coinvolge Luisa Gagliardi (Università Bocconi), Simona Iammarino e Andrès Rodriguez-Pose (London School of Economics) si pone l'obiettivo di analizzare le ragioni sottese al disallineamento tra la percezione pubblica e le risultanze della ricerca accademica sugli effetti delle strategie di delocalizzazione produttiva e investimento estero delle imprese multinazionali sul mercato del lavoro dei paesi di origine. Utilizzando dati sul numero di posti di lavoro creati/distrutti, catalogati in funzione del contenuto di conoscenza delle mansioni ad essi connessi, e sull'ammontare degli investimenti esteri in uscita per micro-area geografica e settore di riferimento in Gran Bretagna, gli autori pongono l'attenzione sulla dimensione geografica del processo decisionale d'impresa vis-à-vis quella degli effetti sul mercato del lavoro al fine di riconciliare il dibattito pubblico e accademico sull'argomento.
Le conseguenze delle scelte di delocalizzazione e investimento estero da parte delle imprese multinazionali vengono infatti avvertite in maniera preponderante a livello locale. Questo perché ogni mercato locale del lavoro, pur all'interno del medesimo contesto nazionale, si caratterizza per una specializzazione settoriale e funzionale specifica. Di conseguenza le aree in cui posti di lavoro vengono persi a seguito dei processi di delocalizzazione produttiva difficilmente coincidono con quelle in cui nuove opportunità emergono a valle della riorganizzazione geografica della produzione e relativi ritorni di produttività. Dunque, seppur l'effetto aggregato a livello di sistema paese può risultare positivo, o comunque non negativo, nel medio/lungo periodo la distribuzione geografica dei costi e benefici associati a tali processi rimane fortemente iniqua.
Lo studio mostra come gli effetti negativi legati alle strategie di delocalizzazione e investimento estero delle imprese multinazionali nei paesi di origine si concentrino in aree geografiche caratterizzate da strutture industriali mature e colpiscano soprattutto lavoratori che svolgono compiti di natura routinaria e a basso valore aggiunto. Al contrario, i benefici in termini di maggiori investimenti e nuovi posti di lavoro coinvolgono soprattutto aree caratterizzate da sistemi produttivi innovativi e, in questi contesti, categorie di lavoratori ad alto valore aggiunto che svolgono mansioni di natura non routinaria o cognitiva.
Tale evidenza impone una riflessione profonda sulle conseguenze sociali delle decisioni strategiche di impresa e sulla distribuzione dei costi ad esse connessi a livello individuale e geografico.