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La normativa per contrastare questo reato vale anche per gli intermediari delle monete digitali, che devono registrare la clientela e segnalare azioni sospette. E se l’intermediario non collabora? Per accusarlo di partecipare a un atto criminale bisognerebbe accertarne il dolo

Le principali istituzioni finanziarie denunciano ormai da anni il pericolo di un utilizzo delle criptomonete a scopi criminali, quale quello di riciclare denaro sporco.

Per via delle loro caratteristiche e del loro funzionamento “democratico”, le crypto sono difficilmente controllabili dalle agenzie di contrasto penale. Perché lo Stato possa adeguatamente perseguire dei fatti di reato, pertanto, v’è bisogno della collaborazione di chi svolge attività di intermediazione in questo settore: tali soggetti rispondono principalmente al nome di exchanger e wallet provider.

Fin dagli anni Novanta, con l’introduzione delle prime normative antiriciclaggio, il legislatore italiano ha cercato l’aiuto degli intermediari per fronteggiare la reimmissione nel mercato dei beni di provenienza illecita.

Oggi la normativa – cosiddetta AML (Anti-Money Laundering) – è stata aggiornata e trova applicazione, appunto, anche nei confronti degli operatori del settore crypto: costoro devono registrare la clientela, conservare la documentazione che la riguarda e segnalare alle autorità – ossia a Banca d’Italia – le “operazioni sospette”, cioè tutte quelle operazioni che potrebbero essere riconducibili a pratiche di riciclaggio.

Che fare però se l’intermediario, vale a dire un soggetto privato, non contribuisce a contrastare questo fenomeno?

Da un punto di vista politico-criminale, i modi per sollecitare una collaborazione attiva degli intermediari sono due: uno più semplice, che consiste nel sanzionarli ogni volta che non collaborano con le autorità pubbliche, a prescindere quindi dalle conseguenze del loro comportamento; un altro, molto meno lineare, che punta invece a incriminare gli stessi intermediari per il delitto di riciclaggio (punito molto severamente), al pari del cliente riciclatore.

Sul piano tecnico-giuridico, quest’ultima soluzione si avvale di un espediente di carattere ermeneutico: è l’interprete che, osservando e qualificando in un determinato modo l’atteggiamento dell’operatore, rinviene in capo a costui la volontà di delinquere e, in particolare, di compiere un fatto di riciclaggio. Passaggio necessario, questo, dal momento che in assenza di dolo non verrebbe a integrarsi il reato in questione (nell’ordinamento italiano non si può commettere un riciclaggio per sola colpa, cioè per non esser stati sufficientemente diligenti).

In questo come in altri ambiti del diritto penale, capita talvolta che l’interprete, dinanzi a condotte difformi da quelle puntualmente prescritte dal legislatore, vi intraveda una malafede da parte del soggetto agente. Rispetto al tema in parola, allora, una siffatta lettura porta a concludere che il non aver adempiuto ai vari obblighi non può che denotare una volontà dell’operatore di realizzare un fatto di riciclaggio.

A ben vedere, tuttavia, una simile ricostruzione si pone in aperto contrasto non solo con le regole del diritto, ma anche con il comune buon senso: per esempio, il non avere registrato la propria clientela e/o conservato la relativa documentazione, nulla ci dice in merito alla consapevolezza (presupposto logico della volontà) di exchanger e wallet provider di (star facendo) “ripulire” beni di provenienza delittuosa. La pura violazione di una condotta doverosa, infatti, lascia del tutto inevasa la richiesta di accertamento del dolo di riciclaggio: un conto è tenere un comportamento difforme da quello dovuto, altra cosa invece è sapere che dal proprio comportamento sta derivando (o è derivato) un riciclaggio ideato da altri. Parimenti insufficiente è il mero silenzio dell’intermediario dinanzi a un’operazione sospetta, dal momento che – come pure sostenuto dalla Corte di cassazione – “sospettare” non equivale a “conoscere”. Ma, a dirla tutta, anche nei confronti di chi è a conoscenza di una manovra dissimulatoria attuata da un cliente, il non aver segnalato l’operazione a Banca d’Italia potrebbe spiegarsi diversamente (ad esempio, un tale inadempimento potrebbe dipendere da una scarsa organizzazione aziendale). Insomma, appare abbastanza chiaro che accertare la violazione di un obbligo AML non è affatto sufficiente ai fini della prova del dolo di riciclaggio: occorre sempre e comunque ricercare degli ulteriori elementi esterni alla cui luce analizzare quella stessa violazione.

In considerazione di quanto detto, è dunque giuridicamente preferibile concentrarsi sulla mancata collaborazione dell’intermediario, evitando forzature interpretative. E ciò anche al costo di non riuscire a ottenere quel risultato, principalmente politico, che consiste nella partecipazione di exchanger e wallet provider alla lotta contro le storture del mondo crypto.