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La nuova America di Trump

, di Davide Ripamonti
Politica estera ma non solo. Molte cose potrebbero cambiare negli Stati Uniti: dai rapporti con l’Europa, alla Nato, al ruolo di Elon Musk. Ne parla in questa intervista il direttore del Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche della Bocconi, Vincenzo Galasso

Il primo fu Grover Cleveland alla fine dell’800, candidato dei Democratici. Per trovare il secondo presidente americano eletto due volte non consecutivamente abbiamo dovuto attendere circa 130 anni. E Donald Trump.  Basta questo per evidenziare come l’impresa sia tutt’altro che semplice. Anzi, così difficile che tutti o quasi gli analisti politici, i media e gran parte dell’opinione pubblica consideravano Kamala Harris la naturale favorita, o quantomeno in grado di giocarsela all’ultimo voto, nonostante la candidatura preparata in fretta e furia e qualche dubbio all’interno dello stesso Partito Democratico. L’elezione di Trump, anche e soprattutto perché avvenuta in maniera così netta, avrà inevitabilmente grandi riflessi nel contesto mondiale ed europeo in particolare, sia dal punto di vista economico e politico sia da quello militare. Ne parliamo in questa intervista con Vincenzo Galasso, professore ordinario di Economia e direttore del Dipartimento di Scienze sociali e politiche dell’Università Bocconi.

 

Prima del voto, molti analisti sostenevano che, chiunque avrebbe vinto, i rapporti con l’Europa sarebbero cambiati. Non sappiamo come sarebbe andata con la Harris, ma con Trump forse si può azzardare qualche ipotesi in più.

E’ vero che abbiamo già visto Trump all’opera, tuttavia resta un personaggio dalle molte sfaccettature, difficile da decifrare. Quello che cambia molto, rispetto al suo primo mandato, è che adesso ha un vicepresidente, J.D. Vance, che rappresenta un po’ il suo teorico, colui che è destinato a teorizzare il Maga (Make America Great Again), che non è più solo improvvisazione trumpiana ma può diventare una vera e propria ideologia. E questo rappresenta un grande cambiamento rispetto al passato. Anche nei rapporti con l’Europa.

 

Dove, in questo momento, lo snodo cruciale è la situazione in Ucraina.

Trump ha già fatto capire che si potrebbe chiudere la guerra con qualche cessione da parte dell’Ucraina. E poi la stessa Ucraina non potrebbe entrare a far parte della NATO per i prossimi 20 anni almeno. Difficile dire come questo possa incidere sull’Europa, così come è difficile dire che cosa potrà capitare alle Repubbliche Baltiche, dato che la Russia trarrà le sue conseguenze, e cioè potrebbe avere la tentazione di espandersi… anche se le repubbliche baltiche fanno parte della NATO.

 

L’altro grande tema, su cui il futuro presidente si è già espresso anche in passato, è quello della NATO. Tema peraltro caro agli americani in generale.

I rapporti con la NATO cambieranno, e probabilmente sarebbero cambiati anche se avesse vinto la Harris. Negli Stati Uniti la sensazione è che la NATO sia una sorta di coperta americana per l’Europa ma per la quale l’Europa non paga abbastanza. Certamente meno del 2% del Pil fissato per il 2024 dalle NATO guidelines, mentre gli Usa versano il 5%. Nella sua visione geopolitica, Trump, che è molto più preoccupato della Cina che della Russia, potrebbe anche propendere per un disimpegno completo dalla NATO, come peraltro fatto dalla Francia negli anni Sessanta. 

 

Un’uscita degli Stati Uniti dalla NATO enfatizzerebbe uno dei grandi punti deboli dell’Unione Europea…

L’Unione Europea verrebbe messa di fronte, in maniera anche violenta, a una delle sue grandi debolezze, cioè l’assenza di una politica di difesa comune. Questo sarebbe un passaggio molto delicato, che si cercherà in tutti i modi di evitare, magari adottando una soluzione intermedia, cioè aumentando la spesa militare dei paesi europei e portandola a quel fatidico 2% di cui parlavamo prima. Ma gli Stati Uniti a quel punto potrebbero chiedere anche di più. E’ brutto chiamarlo ‘ricatto’, però… 

 

Il tema della spesa militare però non riguarda solo la NATO, ma genera tutta una serie di riflessioni.

A cominciare da quello della politica industriale, visto che molti paesi, tra i quali anche l’Italia, producono e vendono armi. Questo è sicuramente un tema rilevante. Ma l’argomento principale resta la convinzione degli americani, e in questo caso dello stesso Trump, che gli europei si debbano prendere più responsabilità in tema di difesa. Non dimenticando, peraltro, un’altra considerazione: se si parlasse di una difesa militare comune europea in questo momento rimarrebbe fuori il Regno Unito, cioè il principale e storico alleato degli Stati Uniti. Si tratta di un puzzle difficile da comporre, con diversi elementi in gioco come abbiamo visto, dalla politica industriale alla difesa comune e alla questione Regno Unito. Sono convinto che questi temi verranno prepotentemente fuori e saranno strettamente connessi con quanto accadrà in Ucraina.

 

Tornando ai riflessi sull’Europa, un altro grande tema è quello economico. Trump ha rispolverato la minaccia dei dazi.

In questo caso la “guerra”, se vogliamo chiamarla così, non è con l’Europa ma con la Cina. L’Europa, e certamente anche l’Italia che con gli Stati Uniti ha una bilancia commerciale positiva, rischia di rimanerci in mezzo. Tra l’altro in un periodo storico in cui anche l’altro grande paese verso cui esportiamo, la Germania, attraversa un momento negativo. La nostra economia potrebbe subire quindi un doppio shock. Quella di Trump nei confronti della Cina è una mossa di politica economica ma con importanti risvolti di politica sia interna sia estera. Il rischio è che gli Stati Uniti vengano isolati e che proprio la Cina riesca a espandersi in alcuni paesi, per esempio il Messico, storicamente molto legati agli Stati Uniti. La possibilità è che alla fine Trump adotti alcune misure più di facciata, dal significato politico per accontentare l’elettorato, più che dal reale impatto sul commercio internazionale. Non dimentichiamo che Trump è persona molto pragmatica, sa benissimo che uno dei temi vincenti della sua campagna elettorale è stato quello dell’inflazione e dovrebbe sapere che una politica commerciale improntata sui dazi la farebbe aumentare.

 

Altro argomento: il ruolo di Elon Musk, considerato decisivo in campagna elettorale. Verrà ricompensato?

Musk ha dato un grande contributo economico alla campagna elettorale di Trump, circa un decimo del totale. Ma non solo questo. Facile pensare che la sua vicinanza al futuro presidente avrà un grande impatto sulla politica industriale del paese, in particolare, almeno questo è il timore, è che si vada in direzione opposta a quanto auspicato da molti, per esempio il Premio Nobel Daron Acemoglu, e cioè una regolamentazione in tema di nuove tecnologie e intelligenza artificiale in primo luogo. La preoccupazione è che Elon Musk spinga in direzione contraria, cioè completa deregolamentazione e maggiore concentrazione del potere economico. Un cambiamento epocale se si pensa che fino a non molto tempo fa si riteneva che il potere economico fosse nelle mani dell’alta finanza, mentre adesso i dominatori sono i grandi social media. Musk avrà un peso importante, indipendentemente dal ruolo che ricoprirà.

 

Altro tema, questo più interno, l’annunciata sostituzione dei vertici della burocrazia.

Sì, Trump, che per effetto delle elezioni ha la maggioranza sia alla Camera sia al Senato, vuole accentuare lo spoil system e collocare suoi uomini e donne ai vertici delle principali agency, contravvenendo un po’, in questo, allo spirito della Costituzione americana che vorrebbe una burocrazia neutrale che funga da controllo sulla politica. Con questa mossa Trump, almeno fino alle elezioni di Midterm, non sarebbe sottoposto a nessun controllo.

 

Facciamo un passo indietro. Quando, secondo lei, Trump ha cominciato a costruire la sua vittoria?

Dopo la sconfitta nelle elezioni del 2020 e i fatti di Capitol Hill del 2021, il Partito Repubblicano avrebbe potuto in qualche modo estromettere Trump e sostituirlo con un leader sì conservatore ma non populista, ma non ne ha avuto la forza, forse è mancato qualcuno in grado di spendersi in questo senso. Da lì in avanti Trump si è ripreso il partito. C’è poi un’altra considerazione: i democratici hanno sempre sostenuto di avere la maggioranza dei voti nel paese, anche se a volte venivano penalizzati dal sistema elettorale. Ecco, forse adesso questa narrativa non è più vera, e Trump è riuscito a tenersi il Partito perché nel frattempo la base elettorale si era spostata.