Quando il commercio internazionale aumenta la possibilita' di conflitto
Il commercio internazionale favorisce pace e prosperità. In determinate circostanze, però, può contribuire a incrementare il rischio di conflitto fra due stati. Kerim Can Kavakli, assistant professor presso il Dipartimento di scienze sociali e politiche, è giunto a questa conclusione utilizzando una banca dati estremamente dettagliata sul commercio internazionale fra il 1962 e il 2000. "È la prima volta che questo database viene usato nel campo delle scienze politiche", spiega. Per ogni paese, Kavakli e il coautore J. Tyson Chatagnier hanno esaminato i livelli di esportazione relativi a quasi 1.300 merci. In base a questi dati, hanno poi determinato in quale misura coppie di paesi sono concorrenti sul mercato internazionale. "Abbiamo scoperto che i paesi che commerciano prodotti simili hanno maggiori probabilità di scontrarsi. La possibilità che nasca una crisi o che si accenda un conflitto, non necessariamente una guerra, sale dal 10% al 25%". Accade indipendentemente da forma di governo, cultura politica, equilibrio dei poteri, distanza geografica, livello di sviluppo economico, legami commerciali bilaterali. L'effetto è più pronunciato quando i due paesi commerciano in beni industriali, meno quando competono nella vendita di materie prime. Gli autori pensano che la relazione fra commercio internazionale e conflitto sia mediata dai gruppi di interesse nazionali che influenzano la classe dirigente, usano la politica estera per ottenere vantaggi economici e scaricano i costi sul paese. È un monito circa i pericoli della globalizzazione?
"La letteratura ha dimostrato che i legami commerciali favoriscono la pace fra coppie di stati. Si potrebbe perciò pensare che l'integrazione economica stia rendendo la Cina più pacifica. La nostra ricerca mostra che può incrementare il rischio di conflitto con i paesi che vendono prodotti simili sul mercato globale".
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