Le nuove scoperte cominciano con un PhD
Qualcuno la definisce il "fiore all'occhiello" dell'ateneo. E non è un titolo scontato, perché la PhD School, ovvero la scuola Bocconi destinata ai dottori di ricerca, non ruba gli sguardi di aziende e imprese e nemmeno assolve semplicemente alla necessità di formare i docenti per le cattedre di via Sarfatti, ma punta ad attrarre i migliori aspiranti ricercatori per restituirli alle più qualificate università del mondo. Un compito al quale presiede Andrea Fosfuri, Dean della PhD School e primo testimone dell'impegno di risorse e sensibilità che è necessario per formare oggi un ricercatore. "Io non sono un esempio classico di studente con la vocazione del ricercatore", si schermisce il docente. "Anzi, dopo la laurea in Economia e Commercio nella mia Urbino, avevo l'intenzione di fare uno stage in azienda, ma poi ho incontrato un professore, Alfonso Gambardella, proprio della Bocconi, che ha intravisto in me delle skill per la carriera accademica e mi ha indirizzato verso quella direzione. Se ripenso alla mia storia, insomma, vedo il risultato di un insieme di opportunità formative, incontri personali e scelte di ricerca, ma al quale ha concorso anche la variabile fortuna. Oggi non possiamo più permetterci che sia così, dunque cerchiamo di rendere tutti questi elementi una costante garantita a chi compie il percorso del PhD, mettendo loro a disposizione i migliori docenti, affidandoli a un advisor che li indirizzi verso gli ambiti di studio più rilevanti e inserendoli in un network professionale internazionale".
Che cosa rende diverso il percorso del PhD rispetto a quello, per esempio, di un master?
Un ricercatore è per sempre, mi verrebbe da dire. Non si smette mai di esserlo, non è una carriera, è una scelta di vita. Non è un caso, infatti, che le attività di ricerca creino delle relazioni che durano decenni. Se non mi avessero proposto, per esempio, il ruolo di Dean della scuola io quest'anno mi sarei preso un periodo sabbatico per raggiungere tre colleghi in diversi paesi del mondo e completare le ricerche che ho in corso con loro. D'altra parta si dice "publish or perish"...
Tornando alla sua storia, com'è maturata dunque la sua vocazione alla ricerca?
Come detto, sono stato indirizzato verso il PhD a Barcellona, ma dopo un mese e mezzo dall'inizio ero sconsolato, ricordo che ho chiamato casa e ho detto a mio padre che volevo tornare indietro, mi sentivo il peggior studente e le lacune in matematica mi sembravano insuperabili. Poi, piano piano, sono arrivati i primi risultati ma soprattutto ho conosciuto il professor Massimo Motta che mi ha appassionato al tema del trasferimento tecnologico nelle imprese multinazionali e mi ha coinvolto in alcune ricerche in corso. Ho sentito allora, per la prima volta, il piacere di dare un contributo personale al sapere universale. Quando poi ho potuto presentare i risultati alla prima conferenza e ho cominciato a essere riconosciuto come un esperto in uno specifico ambito di ricerca ho capito che avevo trovato davvero la mia strada.
Le capita spesso oggi di essere lei a incoraggiare studenti magari dubbiosi? Che cosa dice loro?
Sì, nel mio ruolo di Dean mi è capitato alcune volte di trovarmi a dover confortare studenti in difficoltà, anche se in generale oggi i ragazzi arrivano più preparati e più informati alla scelta del PhD, meno sorpresi dalle difficoltà del percorso. Il dubbio che spesso accomuna gli studenti è l'ambito verso il quale indirizzare le proprie ricerche con maggior profitto. Per questo nel mio anno da direttore ho lavorato molto per stimolare un maggior "commitment" tra i docenti nell'interpretare il ruolo dell'advisor, cioè di colui che deve consigliare e incanalare le ricerche del dottorando verso gli ambiti più innovativi, più appealing, e verso i media più efficaci per la loro comunicazione scientifica. È fondamentale poter vedere e toccare con mano gli esiti del proprio lavoro il prima possibile. Il percorso del dottorato è molto lungo, dalle prime lezioni ai primi risultati dell'attività di ricerca possono passare quattro o cinque anni e questo mette a dura prova le motivazioni. Per questo riesce meglio chi è più capace di sostenere l'impegno senza inseguire feedback immediati, sopportando magari anche il confronto inizialmente sfavorevole con i compagni e gli amici che completano un MBA e si inseriscono subito nel mondo delle imprese.
Spesso, nei dipartimenti universitari, i giovani dottori svolgono anche attività di supporto alla didattica, fanno seminari, esami, assistenza ai laureandi...
La moneta internazionale di scambio dei ricercatori è la qualità della loro ricerca, e questa deve rimanere la priorità. Qui in Bocconi dunque i dottorandi non sono tenuti in alcun modo a svolgere attività didattica. È naturale però che, una volta integrati nelle realtà del dipartimento, vengano coinvolti in questi ruoli, per i quali sono retribuiti a parte per altro, e dal terzo anno è anche consigliabile che acquisiscano un po' di esperienza nella didattica perché spesso viene loro richiesta dagli atenei che li assumono.
Qual è la situazione attuale del mercato del lavoro internazionale per i giovani docenti?
Essere scelti per insegnare in un'università prestigiosa è molto difficile, il mercato dei ricercatori si è fatto davvero selettivo. Alcuni dei nostri diplomati hanno raggiunto posizioni di eccellenza, in università come Insead, Harvard, London Business School, HEC Paris, National University of Singapore, ma anche noi dobbiamo lavorare per dare più costanza a questi risultati e i tempi non sono favorevoli. Il Covid-19 ha avuto un impatto importante anche sui bilanci delle università riducendo i posti a disposizione. Diverse business school, specialmente in Usa, hanno già fatto sapere per esempio che per quest'anno non assumeranno nessun nuovo professore.
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