Pubblicita' e copertura giornalistica, le gemelle diverse
La teoria del giornalismo e quella del marketing vorrebbero che pubblicità e contenuto editoriale fossero due mondi separati, che si rispecchiano, nelle aziende, in uffici marketing e uffici stampa altrettanto autonomi. La pubblicità è certa (chi la compra la ottiene), ma costosa e poco credibile, mentre la copertura giornalistica è incerta (per ottenerla si deve fare notizia), ma economica e attendibile, perché il lettore ritiene che sia frutto di una libera scelta effettuata da giornalisti di cui si fida.
I dubbi, che i lettori più smaliziati hanno sempre nutrito, sul realismo della teoria sono alimentati da Diego Rinallo (Università Bocconi) e Suman Basuroy (University of Oklahoma) nell'articolo scientifico Does Advertising Spending Influence Media Coverage of the Advertisers?, pubblicato sul numero di novembre del Journal of Marketing. Analizzando la spesa pubblicitaria e la copertura giornalistica di 291 imprese italiane della moda sulle pubblicazioni di 123 editori in Italia (61), Francia (15), Germania (15), Regno Unito (16) e Stati Uniti (16), i due studiosi concludono perentoriamente che "ci sono le prove di una forte influenza positiva della pubblicità sulla copertura giornalistica".
Il legame tra investimento pubblicitario e copertura giornalistica dei prodotti di un'azienda è forte e presente sia in Europa, sia negli Stati Uniti, ma è soggetto ad alcune qualificazioni. Gli editori più esposti al fenomeno, tanto per cominciare, sono quelli più specializzati. Per tutti la raccolta pubblicitaria è una fonte di reddito superiore alla vendita dei prodotti editoriali, ma gli editori specializzati hanno meno possibilità di rimpiazzare un inserzionista contrariato dalla mancanza di copertura giornalistica, che minacci di spostare i suoi investimenti altrove.
La spesa pubblicitaria, inoltre, non è assolutamente l'unica determinante della copertura e interagisce con altre variabili, prima di tutte l'autoreferenzialità dell'industria giornalistica, per cui le pubblicazioni tengono d'occhio le scelte editoriali degli altri e tendono, in qualche modo, a riprodurle. In altre parole, la possibilità di copertura da parte di un editore aumenta all'aumentare della presenza di uno stilista sulle pagine delle altre riviste. Le altre due variabili significative ai fini della pubblicazione sono le dimensioni dell'azienda e la sua innovatività, che aiutano a costruire notizie che la riguardano.
Rinallo e Basuroy ipotizzano anche che le imprese abbiano qualche difficoltà in più a far valere il rapporto tra investimento e copertura sui mercati esteri, ma se questo è vero, per le imprese italiane, in Francia, lo è molto meno altrove e soprattutto negli Stati Uniti.
I due autori ripetono l'analisi, per l'Italia, a livello di singole pubblicazioni anziché di portafoglio di un editore, registrando gli stessi risultati, ma in forma più attenuata. Accanto a ragioni statistiche (le relazioni tra variabili aggregate sono solitamente più forti che tra variabili disaggregate) ci potrebbe essere anche un utilizzo strategico, da parte degli editori, del loro portafoglio di pubblicazioni, per cui potrebbero talora ricompensare l'inserzionista della rivista A con copertura giornalistica sulla rivista B.
Se non si tiene conto del legame tra pubblicità e copertura editoriale, concludono Rinallo e Basuroy, si sottostimano il costo della copertura e l'efficacia della pubblicità. Infatti, nel loro modello, le possibilità di pubblicazione senza il sostegno pubblicitario sono scarsissime e nella valutazione dell'efficacia della pubblicità si dovrebbe, perciò, tenere parzialmente conto dell'efficacia della copertura giornalistica che essa genera.
Nello scenario dipinto dai due autori l'unica strategia che possono adottare i piccoli investitori per ottenere comunque visibilità giornalistica è l'innovazione, il che spiegherebbe l'eccentricità di alcune scelte stilistiche in occasione delle sfilate. Inoltre, risulta che, a parità di investimento, ottiene maggiore copertura giornalistica chi concentra la spesa sulle riviste specializzate e su quelle che, a causa dell'autoreferenzialità del settore, condizionano le scelte editoriali delle altre.