Consumption crossover, ed ecco i balli latini
Crossover Dreams, così si intitola uno dei pochi contributi sul consumption crossover. L'espressione poco user-friendly descrive un fenomeno in realtà quotidiano: il consumo, da parte del gruppo culturalmente dominante, di servizi, prodotti, brand, esperienze che pertengono a un gruppo di minoranza. Grier, Brumbaugh e Torton, autori dell'articolo citato, esplorano l'altro lato dell'immigrazione e, così facendo, ricordano che i processi di acculturazione non riguardano solo gli "altri".
Come italiani, consumiamo sempre più spesso alimenti, musica e arte, design, servizi di medicina alternativa, vestiario e accessori moda, che arrivano da molto lontano. Solo pochi decenni fa sarebbe stato impensabile indossare un maglione peruviano (magari firmato Prada, come succede nell'ultima collezione "Made in Perù" della nota griffe milanese), fare colazione con mango fresco ascoltando musica macedone, pranzare a base di sushi, lavorare con colleghi di varie nazionalità, prendere lezione di balli latini, per chiudere la giornata sorseggiando mojito, magari distesi su di un futon. La presenza di più consumatori stranieri ha inevitabilmente consentito alle imprese di elaborare un'offerta connotata in termini etnici. Parallelamente, gli italiani hanno osservato, testato, esplorato nuove forme di consumo, restando spesso affascinati. Da una nostra recente ricerca (Factory Outlet Center: relazioni con la marca e place attachment), emerge che gli italiani aperti ai consumi esotici sono guidati da un desiderio di evasione dal quotidiano. Per alcuni, questo consumo ha una forte valenza sociale, differenziandoli dalla massa. Se, un tempo, le teorie di Veblen ci insegnavano che la classe agiata viene imitata per bisogno di omologazione, oggi c'è chi preferisce sentirsi diverso, e per ragioni indipendenti dal reddito! Diversamente, c'è anche chi sposa il consumo etnico con motivazioni più intime, quale atto ideologico di apertura alle nuove culture e di tutela delle minoranze. Verrebbe da dire "Mangio cinese e difendo la legittimità di questo gruppo nel mio quartiere". Gli studi condotti riconoscono che le potenzialità del consumption crossover si legano tanto al fronte dell'offerta quanto a quello della domanda. Le imprese, infatti, possono accrescere l'appeal dell'offerta "etnica" lavorando su leve quali l'esplicitazione del target di riferimento, i testimonial, il ricorso nella comunicazione a pratiche o rituali simbolicamente evocativi. La ricettività dei consumatori, poi, varia in funzione della loro appartenenza ad altri gruppi di minoranza, alla volontà di distinguersi, alla ricerca di varietà. Il contesto di consumo (pubblico vs privato, individuale vs collegiale) può enfatizzare la spettacolarizzazione delle scelte di acquisto (se voglio distinguermi, questo sarà ancor più marcato in presenza di un'ampia audience) così come il timore di essere giudicati.
Una provocazione finale. Il consumption crossover interessa noi italiani ben prima dell'arrivo in massa dei migranti dell'ultimo ventennio. Da molto più tempo, infatti, consumiamo tecnologia giapponese, alimenti americani ("Have a Coke!"), formule distributive anglosassoni, per arrivare ai recenti social network. Tuttavia, mai abbiamo qualificato questi consumi come etnici, anche se Coca Cola ci è tanto estranea quanto un piatto di wanton. Non sarà che, come consumatori, inconsciamente creiamo gerarchie tra culture e consideriamo etnici solo i consumi riferibili a culture per noi inferiori? A ben guardare, i consumi raccontano molto di più di semplici storie di mercato.