Il limbo di un campo profughi vissuto da tre studentesse
Un mondo sospeso, centinaia di vite bloccate, un imperdonabile spreco di capitale umano. È il campo profughi di Ritsona, in Grecia, nella valutazione di Giulia Buccione, Viola Corradini e Beatrice Montano, tre neolaureate in Economic and social sciences, che a marzo 2017 e maggio 2018 hanno visitato il campo per un progetto di ricerca del Leap, il Laboratory for effective anti-poverty policies della Bocconi.
Un architetto milanese specializzato in strutture d'emergenza, Bonaventura Visconti di Modrone, ha chiesto al Leap una valutazione d'impatto dell'installazione di uno spazio comune, una tenda dedicata alle attività sociali, nel campo profughi che ospita tra le 500 e le 900 persone, in gran maggioranza siriani.
«Ma come valutare l'efficacia di un intervento in un campo profughi, se non sappiamo come un campo profughi funziona?», si sono chieste le tre studentesse, che si sono così rese conto della mancanza di letteratura scientifica al riguardo. Il primo soggiorno, a marzo 2017, è servito a rendersi conto della realtà del campo, «una prigione a bassa intensità di controllo, un posto pieno di gente ferma in un limbo per anni», dice Viola.
Ritsona è considerato uno dei campi più sicuri di Grecia e gli ospiti possono andare e venire a loro piacimento, anche se il paese più vicino è a un paio d'ore di cammino e le autorità assicurano un solo trasferimento la settimana per e da Atene e Chalkida. «Ci siamo subito rese conto dell'esistenza di un'economia di mercato embrionale, con tante piccole attività, dal barbiere alla rivendita di alimentari, gestite dagli stessi profughi», ricorda Giulia. «Questi devono anche risolvere il problema dell'approvvigionamento di cibo con i 90 euro al mese che l'Unhcr assicura a ogni capofamiglia e i 50 per ogni altro membro». Le tre ragazze hanno, allora, deciso di indagare, con un questionario, le scelte economiche e sociali dei rifugiati. A maggio 2018 hanno raccolto i dati prima della tenda, che saranno confrontati con quelli che, dopo l'installazione appena avvenuta, raccoglieranno altri studenti.
Dalla Siria martoriata dalla guerra si sono spostati interi villaggi e i campi profughi presentano un microcosmo variegato (dal laureato al contadino), che riproduce i problemi e le contraddizioni della madrepatria, a cominciare dalla mancata integrazione tra siriani di etnia araba e curda.
«Quando si arriva a Ritsona colpiscono le piccole attività economiche, che sembrerebbero indicare un forte dinamismo», spiega Beatrice, «ma ci si rende subito conto che a intraprenderle sono una piccola minoranza di giovani maschi». Quando si comincia a girare tra i container si scopre una realtà fatta di mancanza di legami sociali, soprattutto per le donne che raramente escono dai box, diffidenza, apatia, noia, fino alla depressione ed episodi di forte disagio tra i giovani.
«Una prima conclusione alla quale siamo arrivate», dicono le tre ragazze, «è la mancanza di informazione reciproca. Come noi non avevamo idea della vita in un campo profughi e della durata della permanenza, loro non hanno idea di che cosa sia realistico attendersi in Europa. Scelgono un paese anziché un altro in base a una cartolina o poco più e si attendono stipendi che può guadagnare un manager».
Giulia, Viola e Beatrice hanno raggiunto la consapevolezza più profonda di che cosa significhi vivere in un campo profughi non tanto attraverso le risposte al questionario, quanto attraverso gli incontri con ragazzi della loro età, che le hanno aiutate nella ricerca e coi quali hanno potuto immedesimarsi.
«Saleh è un ragazzo di 20 anni di origine palestinese», racconta Beatrice, «nato in un campo profughi ad Abu Dhabi e cresciuto in diversi altri campi, finché questi sono stati chiusi. Dopo due anni e mezzo in Grecia è l'unica persona che conosciamo ad essere riuscito ad ottenere un passaporto come richiedente asilo e ce lo mostrava con un po' di gioia, ma anche con amarezza, perché il passaporto lo definiva come apolide».
«Firas è un ragazzo siriano laureato in filosofia, che è una delle mie passioni», dice Giulia. «Un po' parlavamo di Avicenna, e un po' pensavo che avrei potuto essere al suo posto, e invece io lo intervistavo, sapendo di tornare presto a casa, mentre lui non aveva né certezze per il futuro, né il denaro per comprare un paio di scarpe sportive».
«Michael e George, due fratelli siriani cristiani, mi ricordavano i fratelli della mia migliore amica», spiega Viola, «parlavano tre lingue, erano brillanti, ma da due anni non facevano più niente. Percorsi interrotti, vite sospese».
Giulia, Viola e Beatrice sono affiliated students del Leap. Il programma, partito nel 2016, prevede incontri regolari tra gli studenti e i docenti che si occupano di economia dello sviluppo in Bocconi e collaborazioni in attività di ricerca. Dalla prossima estate, Beatrice sarà ricercatrice alla London School of Economics, Giulia e Viola partiranno per un dottorato all'estero.