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Ultima chiamata per il futuro

, di Emanuele Elli
Come far recuperare all'Europa il gap tecnologico che la separa da Usa e Cina, sfruttandone competenze e valori? Lo spiega Carlo Purassanta, vicepresidente di ION, nel suo volume Lo slancio decisivo'. Con un suggerimento ai governi: coinvolgere le imprese del settore nella definizione delle strategie di sviluppo

La quarta rivoluzione digitale, quella fondata su Big Data e Intelligenza Artificiale, accelera in modo esponenziale, sospinta dalle tecnologie e dalle innovazioni che arrivano, per lo più, dalla Cina e dagli Usa. L'Europa, per ora, arranca nelle retrovie, frenata da prudenze, burocrazie e lentezze, tanto da sembrare ormai condannata al ruolo di spettatrice. Non tutto, però, è perduto. Il vecchio continente ha ancora la possibilità di recuperare il terreno perso. Lo spiega Carlo Purassanta, già Executive in Ibm e poi Ceo di Microsoft Italia e Microsoft France, oggi vicepresidente esecutivo di ION, nel suo libro Lo slancio decisivo (Egea), identificando nel prossimo decennio quello decisivo per indirizzare il nostro destino industriale verso le nuove frontiere dello sviluppo. Perché il futuro si concretizzerà, che l'Europa vi partecipi o meno, ma i valori del nostro continente potrebbero renderlo certamente più inclusivo e sostenibile.

La premessa per questa ripartenza è scolpita nel prologo del suo volume: "Dobbiamo fare pace con la tecnologia". Ha avuto spesso la percezione di questa difficoltà durante i suoi mandati da Ceo in Europa?
Sì, in maniera molto evidente. Ma non solo Italia, anche in Francia e in generale nell'Europa meridionale. Alla base credo ci sia la frustrazione per il fatto che la tecnologia digitale non è sviluppata da noi e per questo si tende, prudenzialmente, a ritardarne l'adozione per verificarne prima l'impatto a 360 gradi. Questo approccio non è sbagliato, ma richiede tempo e noi non siamo al passo con l'innovazione. Abbiamo già visto come agiscono rivoluzioni radicali come quella digitale. Un secolo fa, intorno all'energia elettrica, non fu solo riorganizzata la produzione ma tutta l'industria, la geografia, l'urbanistica, e infine la società. I dati oggi sono un fattore di questo calibro, e in un mondo Hyperscale chi comincia per primo a costruire valore sui dati acquisisce un vantaggio competitivo che poi è difficile da colmare.

Eppure lei traccia per l'Europa un orizzonte tutto sommato breve per recuperare questo gap: dieci anni, forse cinque.
Per diventare egemonica nel suo settore Ibm ha impiegato 50 anni; Microsoft e Apple, nate negli anni Settanta, ce ne hanno messi una trentina, Google o Amazon quindici, TikTok tre. Oggi, facendo le scelte giuste, bastano un paio d'anni per diventare leader. L'Europa ha competenze, best practice e può attingere a una tecnologia già "pronta all'uso", dunque il traguardo è raggiungibile, non è utopia.

L'Europa però ha tradizioni industriali diverse, più legate a competenze verticali e meno ai servizi. Da dove cominciare?
Per me la frontiera dell'innovazione è nelle industrie e la grande opportunità per l'Europa è da cercare proprio qui. Dobbiamo far trasudare i nostri valori in nuovi modelli di business, reinterpretando le eccellenze "verticali" che abbiamo consolidato in un secolo perché restino tali anche in un mondo digitale. Nei prossimi dieci anni i colossi che hanno sviluppato la tecnologia orizzontale vorranno creare egemonie nei vari settori. Vogliamo aspettare che sia Amazon a insegnarci come si fa una banca, Apple come si costruisce un sistema sanitario o Google come costruire veicoli a guida autonoma?

Quanto di questo riscatto è possibile senza passare dalla creazione di una grande azienda con un'egemonia globale? In Europa mancano punti di riferimenti di successo di questo calibro.
Questo è il nostro punto debole. Non esistono aziende egemoni in Europa, mentre sia Usa che Cina ne contano almeno 5 o 6 in diversi settori. Americani e cinesi hanno modelli di costruzione del valore che favoriscono la creazione di imprese mastodontiche, al contrario noi in Europa abbiamo una cultura e una politica industriale che ci impediscono di crescere oltre un certo range, oltre al fatto che siamo 27 paesi e che, qualsiasi innovazione uno proponga, si deve conquistare un paese per volta. Eppure, abbiamo know how in molti settori, alcune tra le realtà più importanti di ogni industria, cultura, giovani, università e ricerca; se ci fosse accordo sugli obiettivi su cui far convergere gli investimenti potremmo creare un'asimmetria positiva al pari di quanto è accaduto in passato, per fare due esempi, in Israele o nella Silicon Valley.

Come dovrebbe cambiare a questo proposito la politica dell'UE?
Innanzitutto, dovrebbero cambiare i tempi di reazione. Non si può scoprire ora, per esempio, che Facebook ha troppa influenza sulle opinioni delle persone. Il problema delle responsabilità dei social è noto da anni, eppure ancora oggi Telecom e affini devono avere una regolare licenza per agire nelle telecomunicazioni mentre nessuno sa perché Twitter o Facebook non ne abbiano bisogno, con relative regole e responsabilità, per operare come social network. Ma, oltre a un rapido processo decisionale, credo che debba cambiare il modo di concepire le relazioni tra imprese e istituzioni. Nel 2013, quando sono rientrato in Italia come Ceo di Microsoft, pensavo con ingenuità che il governo italiano mi avrebbe chiamato subito per stabilire un dialogo. E invece nulla. Ci sono stati alcuni incontri legati ad aspetti tecnici, ma mai una discussione ad alti livelli sui modelli di sviluppo o per la comprensione delle reciproche esigenze. Come se le aziende fossero troppo di parte per partecipare al dibattito sulla definizione delle politiche. Secondo me, invece, sarebbe responsabilità di un governo convocare le aziende di Tecnologia, così come anche di altre industrie strategiche dall'energia alla salute, e fare di quei gruppi di lavoro delle task force permanenti per elaborare una strategia comune che suggerisca che cosa sarebbe opportuno fare e come farlo a livello di singolo paese o di UE.

Lei dedica una lunga lettera ai giovani su questi temi. Il suo libro, però, parla soprattutto alla generazione che oggi ha in mano il potere.
La classe dirigente di oggi può fare errori importanti oppure portarci verso la soluzione. Il modo migliore per prendere le decisioni giuste è aprirsi al dialogo, non chiudersi. Il modello piramidale che ha dominato per 50 anni nelle aziende è superato e continuare a pensarle così è come voler guidare un'auto guardando nello specchietto retrovisore. Al contrario, bisogna favorire organizzazioni piatte, consapevoli che tutti hanno conoscenze, non solo chi è in alto ma chi sta intorno e quelli che sono coinvolti nelle attività chiave dell'organizzazione, quindi al centro della catena del valore. Bisogna attingere da tutti, e soprattutto dai giovani che sono i consumatori del futuro.

In un capitolo sulle frontiere dell'etica scrive che "per i player digitali la discussione presto non sarà sui business da fare ma piuttosto su quelli che si deciderà di non fare". Come vi regolavate a questo proposito in Microsoft o in Ibm e quali prospettive vede a lungo su questo tema?
In entrambe le aziende che ho guidato il senso dell'etica era profondo, le regole particolarmente ferree e per questo alcuni business sono stati rifiutati. La domanda che pongo, però, è un'altra: è normale che questi temi siano responsabilità delle aziende? A me questo fa un po' paura. Per questo nel libro propongo una soluzione simile a quella individuata dal governo francese con la legge Sapin II che disciplina la governance dei processi anticorruzione per le imprese: si crea un team molto competente, il quale realizza audit nelle aziende valutandone la maturità su alcuni parametri e indicando gli aspetti da correggere e quelli da sanzionare. Mentre svolge questa attività, però, lo stesso team interroga le aziende per apprendere come si stanno muovendo, in modo che nell'audit successivo i parametri di verifica siano aumentati e aggiornati. Così i modelli positivi si cristallizzano, diventano un asset condiviso e un benchmark che spinge tutto il sistema industriale ad andare in quella direzione. Sull'IA dovrebbe accadere la stessa cosa a livello europeo. Il pubblico non dice esattamente alle imprese che cosa fare o come farlo, ma come devono posizionarsi in un circolo virtuoso di miglioramento continuo.

Questo aiuterebbe anche a ricordare qual è vero obiettivo della rivoluzione digitale, e più in generale della tecnologia, ovvero migliorare la qualità della vita e non solo il sistema economico.
È per questo che sostengo che l'Europa avrebbe la possibilità di essere leader mondiale. Perché dal punto di vista filosofico e valoriale il suo contributo è talmente importante che meriterebbe di diventare un veicolo di conoscenza e di creazione di nuovi standard per i modelli del futuro, al fine di renderli più giusti, inclusivi e sostenibili.

Quale ruolo si è ritagliato per lei in questo prossimo decennio?
Dopo due multinazionali americane, ho voluto dedicarmi a un'azienda europea e ho scelto ION Group, che aiuta le imprese a utilizzare dati e algoritmi per cambiare il modo in cui prendono le decisioni e trasformano i modelli operativi. Nel frattempo, sono sempre felice di condividere idee e prospettive sull'innovazione con altre aziende e con i governi, tutti coloro che sono disposti a capire come funzionano questi modelli digitali. È il tema che conosco meglio e che mi appassiona di più.

Dovessero proporle un prossimo ruolo nel pubblico, "alla Piacentini" diciamo, per guidare la trasformazione digitale italiana o europea?
Adesso non è il momento. Ma nel prossimo decennio, chi lo sa!